Filippo Maria Gambari, Marica Venturino Gambari*
I più importanti formaggi dell’Italia nord-occidentale si rifanno ancora oggi, nei nomi e nelle caratteristiche, mantenuti anche dalla produzione industriale, alla tradizione della transumanza stagionale, soprattutto bovina, nata e perdurata per sfruttare gli alpeggi in quota lasciando libere per l’agricoltura le fasce del fondovalle. La distinzione tra formaggi d’alpeggio, ricavati con il latte grasso munto nelle zone in cui il pascolo è migliore sia sul piano nutrizionale che su quello degli elementi aromatici, e “stracchini” con scarsa materia grassa, ricavati originariamente da un latte munto da mucche stanche (“stracche”) per il ritorno dalla transumanza o per la permanenza invernale in stalla con foraggio meno valido (fieno, fogliame), è ancora oggi evidente nelle produzioni. Non stupisce dunque che si possa cercare nel complesso mondo protostorico della transumanza, con la sua cultura, la sua economia, le sue tecniche, i suoi miti ed i suoi riti, la lontana origine dell’articolata produzione casearia odierna.
La nascita della transumanza alpina
Nel Neolitico, a partire dal VI millennio a.C, una fase climatica favorevole e le nuove tecniche di produzione determinano anche in Italia una eccezionale crescita demografica, senza confronti in nessun altra fase storica, in poco più di un millennio. Si stima che nella Cisalpina occidentale, come in media nella fascia climatica temperata europea, la popolazione alla fine del periodo, nella prima metà del IV millennio, possa essere aumentata di trenta volte rispetto alle precedenti fasi mesolitiche.
Dal 4.000 a.C. il peggioramento climatico che segna il progressivo passaggio all’età del Rame favorisce la diffusione dell’aratro, per aumentare le rese agricole e accorciare i cicli di rotazione dei campi, e l’evoluzione dell’allevamento per mantenere costanti i livelli di popolazione. Si passa dalla rotazione degli alpeggi alla vera transumanza, con la concentrazione del bestiame comune in grandi mandrie, sorvegliate da pochi uomini. Si favorisce così sia la diffusione di malattie epizootiche sia l’attività di razzia, che diventa un metodo di superare momenti di crisi delle comunità. L’attività di razzia anche sugli alpeggi in quota caratterizza l’età del Rame fin dalla seconda metà del IV millennio a.C., come dimostrano l’Uomo del Similaun e numerosi ritrovamenti nell’arco alpino. Tra l’età del Rame e la prima età del Bronzo, fino a circa il 1700 a.C., lo sviluppo del pascolo in quota provoca l’esteso disboscamento delle conche e delle pendici alpine ed appenniniche, e la progressiva elaborazione e specializzazione delle tecniche casearie.
Nel corso della media, tarda e finale età del Bronzo, fino a circa il 900 a.C., le tecniche casearie mostrano ormai un discreto livello di specializzazione, indiziato da uno strumentario dedicato anche in ceramica, ma un’oscillazione fredda ed una nuova espansione dei nevai alpini limita il pieno sviluppo di questo settore dell’economia nell’Italia nord-occidentale. Sarà con l’età del Ferro ed il progressivo miglioramento climatico che accompagna il processo di romanizzazione delle popolazioni locali, che la transumanza in quota conoscerà una vera esplosione, in parte come risposta ai rischi di distruzione bellica delle coltivazioni nella pianura, tanto da portare ad una radicale deforestazione della fascia alpina riconoscibile nelle curve polliniche. E’ in questo momento che le tecniche casearie protostoriche arriveranno presso i popoli celtici e liguri delle montagne ad un punto che di fatto appare largamente prefigurare il quadro perdurato fino ai nostri giorni.
I formaggi dei Celti della Cisalpina nelle fonti antiche e nella linguistica
Già nelle descrizioni d’età romana è facile riconoscere i formaggi che costituiscono gli “antenati” delle nostre tome d’alpeggio e fontine.
Nell’Historia Augusta (Ant. Pius, XII,4) si parla di una famiglia di formaggi nelle Alpi occidentali definita genericamente alpinus. E’ facile comprendere come una vera stella di questo gruppo il rinomato vatusicus (da *Vatusio toponimo, probabilmente in Val d’Isère), una fontina o una gruyère prodotto nelle Alpi Cozie intorno al territorio dei Ceutrones (Galen De Alim. facult III 16, 3 ; Plin N. H. XI 97). Si può dunque interpretarlo come un formaggio stagionato d’alpeggio a prevalenza di latte vaccino, di buona conservazione, originalmente cagliato con l’ausilio d’erbe montane aromatiche, secondo una tecnica tipicamente celto-ligure (per es. l’erba detta nel Piemonte nord-orientale bettolina o mattolina, che dà il sapore al bettelmatt). Il termine celtico alpino per questo formaggio d’alpeggio è probabilmente ricostruibile con l’aggettivo *bit[t]u (“durevole”), da cui derivano la denominazione attuale il bitto valtellinese, il Bettelmatt (“alpeggio del bettel” con una resa germanica/walser dell’originale termine celtico) ossolano-ticinese, il beddo biellese: lo stesso termine in celtico ha anche il significato di “mondo” ed è ancora oggi curioso pensare alla terra nell’immaginario degli antichi con l’aspetto di una grande forma di formaggio, leggermente convessa. In generale questa produzione di formaggi di pregio ha dato origine alle fontine, alla groviera, alle tome, al Maccagno, al Castelmagno.
E’ probabilmente nel corso dell’età del Ferro che si escogita la tecnica per rendere conservabile lo stracchino, altrimenti destinato a deteriorarsi in poco tempo. Con l’aggiunta di poco latte di pecora e della muffa raschiata dal pane di segale (e la segale fin dall’età del Bronzo era tipica del Piemonte occidentale) si ottiene l’effetto di asciugarlo della parte acquosa, di aumentarne l’apporto proteico (grazie agli elementi vivi delle muffe) e di evitarne l’aggressione da parte di altri bacilli o saccaromiceti. Si spiega così l’atteggiamento delle fonti latine (Colum XII 59; Plin N. H. XI 97) verso un formaggio definito generalmente gallicus, cioè delle Gallie (Cisalpina e Transalpina) ed evidentemente tipico della casearia celtica: Plinio in particolare dice che “il formaggio delle Gallie ha il sapore e la forza di una medicina”. Il Gallicus rappresenta per molte caratteristiche il capostipite dei formaggi erborinati (dal lombardo erborin, “prezzemolo”) e ne spiega la distribuzione ancora attuale in Europa Occidentale. Richiama dunque il Murianengo o Blu del Moncenisio (fatto originariamente con una quota di latte ovino, mentre oggi il Moncenisio è solo di latte vaccino) ed il Roquefort (a prevalenza di latte ovino), ma anche e direttamente il Gorgonzola. Quest’ultimo nel Novarese era detto tradizionalmente fino ad oggi chèga, con un richiamo al celtico *cagios (“di stalla, di recinto”) con una continuità non attestata altrove del nome celtico). Le più antiche fonti medievali per il formaggio tipo gorgonzola è Eginardo (770-840) che nell’830 menziona l’imbarazzo di Carlo Magno davanti ad una fetta di Roquefort (prime fonti dirette su questo formaggio nel 1070). Nel testamento di Ansperto a Milano dell’879 è citato un caseus maculatus tradizionalmente ritenuto Gorgonzola; nel 1007 un caseus donato alla Scuola di Sant’Ambrogio è probabilmente simile.
Importante notare che le fonti greche e latine collegano ai Celti la realizzazione di un burro solido e compatto per conservare nel tempo le parti più grasse del latte: fin dall’età del Bronzo frollini in legno a più rebbi radiali sono probabilmente collegati ad una attività di questo tipo ma è probabilmente con l’età del Ferro che il collegamento ad un recipiente in legno stretto e lungo (zangola) consente più agevolmente di ottenere in poco tempo una forte concentrazione delle parti grasse della panna, cioè il burro come noi lo conosciamo.
I formaggi dei Liguri dell’entroterra
Una serie di formaggi freschi crea tra la Cisalpina occidentale e la Gallia meridionale la tradizione medievale del seracium (formaggio sieroso, ricotta vaccina grassa o robiola fresca, da una radice indoeuropea presente sia nel celtico che nel latino, mentre appare più celtica la aggettivazione in –acium), che oggi ha lasciato il suo nome nel seirass piemontese, una ricotta morbida e pannosa. Già Plinio il Vecchio (XI 42) parla di un formaggio, la cui variante più pregiata è fabbricata nella regione dell’odierna Nimes, che deve essere mangiato solo fresco.
Nella Liguria in genere sembrano prevalenti i formaggi di latte ovino. Le robiole di latte per lo più caprovino, vaccino o, spesso, misto rappresentano la tradizione dei formaggi d’alpeggio semistagionati, coperti da una crosta rossiccia (da cui il latino rubeola). Un tipo molto particolare di formaggio stagionato di latte ovino (oggi latte misto) è il Montebore delle valli Curone e Borbera alessandrine, che richiama nel nome e nella localizzazione il pago eboreo del territorio libarnese citato nella Tabula Alimentaria del II sec. d. C. di Velleia (PR) e nella forma, determinata dalla sovrapposizione di formaggette di diverso diametro, i poggi terrazzati dei “castellari” liguri preromani.
Plinio il Vecchio (XI 42) vanta la qualità del pecorino di Ceva (CN), che considera il migliore dell’Italia settentrionale in questa categoria e elogia anche un formaggio definito lunensis, cioè di Luni (oggi allo sbocco della valle del Magra presso La Spezia): quest’ultimo arriverebbe a formare anche forme rotonde di 1000 libbre, cioè, se si tratta di libbre romane e non latine, oltre 300 kg, il che appare francamente esagerato. Comunque le grandi dimensioni, legate evidentemente anche alla agevolazione del trasporto marittimo (per cui Luni è da intendersi come porto di carico del formaggio, probabilmente, e non come area esclusiva di produzione), indiziano certamente un formaggio di latte vaccino. E’ probabile che i centri di raccolta di latte in così grande abbondanza si collocassero tra la valle di Magra e l’Emilia occidentale, e dunque questo formaggio sembra prefigurare la tradizione medievale del piacentino, antenato diretto del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano.
*Soprintendenza beni archeologici del Piemonte e Museo delle Antichità Egizie (Italia)
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