5.20.2011

L'ALLEVAMENTO DEL BESTIAME NELL'ANTICA ROMA

La storia, attraverso la vita quotidiana dell'uomo.

Con il termine allevamento, s’intende un complesso di problemi relativi alla moltiplicazione, all’alimentazione e al miglioramento delle razze di animali domestici.
Gli uomini antichi cominciarono ad addomesticare e ad allevare  alcuni animali fin dalla preistoria, probabilmente già nel periodo paleolitico superiore.
Ben presto l’allevamento divenne un elemento molto importante e talvolta fondamentale nella vita dei gruppi umani a partire dal periodo neolitico, al quale risale la prima profonda distinzione tra comunità agricole e comunità pastorali.
Nelle prime, generalmente sedentarie, l’allevamento era combinato con l’agricoltura, e gli animali addomesticati permisero di dare un impulso al lavoro del terreno con l’aratro, trascinato dai bovini, che sostituì così lo scavo eseguito manualmente.
Nelle seconde, generalmente nomadi, l’allevamento divenne la principale e quasi unica fonte di sostentamento per quelle popolazioni.
E’ per queste ragioni che gli studiosi affermano che l’origine dell’allevamento di animali per ottenere carne, latte, lana, pellami, bestiame da lavoro è considerata la stessa della nascita dell’agricoltura.
L’allevamento è sempre stato una struttura portante di tutte le economie agrarie di tutti i Paesi e ancora oggi in molte aree del mondo costituisce la principale fonte di sussistenza.
La sua efficienza dipende non soltanto dalle condizioni naturali dei terreni e degli ambienti, ma soprattutto dalle politiche di investimento delle differenti nazioni.
Normalmente l’attività zootecnica è favorita dalla presenza di terreni irrigeni, generosi nelle produzioni di mangimi e foraggi.
Nell’antica Roma, fin dalle origini la struttura sociale fu quella di una comunità pastorale e agricola, nella quale però, un’aristocrazia gentilizia aveva il controllo della maggior parte della terra e degli armenti assumendo così rapporti di protezione nei confronti di altri elementi della popolazione.
Il Romano infatti, ogni volta che conquistava una nuova zona chiedeva ai vinti prima di ogni altra cosa la terra,sulla quale insediava, come coloni, i reduci delle guerre vittoriose, e la parte migliore di questa terra, l’ager publicus, dovunque essa fosse, veniva considerata proprietà dello Stato.
E così, la società di piccoli contadini dei primi secoli, scompare con il crescere della potenza di Roma, producendo però scompensi di ordine sociale ed economico per l’espansione nelle strutture primitive conquistate.
Il podere diventa latifondo e la terra continua ad essere accentrata nelle mani dell’antica aristocrazia patrizia.
In queste ragioni, numerosi studiosi, individuano le radici della futura decadenza.
Il piccolo contadino è costretto ad inurbarsi e diventa plebe, i campi si affollano di schiavi stranieri costretti alla terra come ad una condanna, ma Roma gelosa delle sue tradizioni agresti, guarda alle “Bucoliche” e alle “Georgiche” come alla situazione ideale per la sua dimensione umana.
Scriveva Varrone nell’anno 37 a.C., proprio all’aprirsi della “Età di Augusto” iniziando il suo famoso libro sulla vita di campagna (De re Rustica) :
“ Voi che avete peregrinato per molte e diverse terre, ne avete vista una più coltivata dell’Italia? Io, per conto mio, non credo ce ne sia alcun’altra tutta quanta coltivata […].
Quale farro[…] quale vino […] quale olio […]. In quale zona della terra si possono ricavare da un solo iugero di terreno dieci o quindici  otri come avviene in certe regioni d’Italia”.
Dunque l’autore esaltava l’Italia come la terra della fertilità, come quella che, quasi per dono divino, produceva in ogni genere più e meglio di ogni altra terra.
E Virgilio nelle “Georgiche”, anch’egli inneggia alla fecondità dei campi e ai “lieti armenti” della terra italica, mettendo in evidenza però il duro lavoro, la fatica, la lotta per il progresso dei contadini per raggiungere la felicità.
I moderni studiosi che hanno cercato di ricostruire le differenti fasi attraverso le quali sarebbe passata l’agricoltura dei Romani, sono sostanzialmente d’accordo nel distinguere tre periodi: nel primo periodo, corrispondente all’età regia e ai primi due secoli dell’età repubblicana, l’agro laziale sarebbe stato diviso in tante piccole proprietà, coltivate prevalentemente a cereali, con una pastorizia esercitata forse in un comune terreno pascolativo; nel secondo periodo, dal III al I secolo, in conseguenza dell’espansione mediterranea, si sarebbe andata sviluppando la media e la grande proprietà, con prevalenza di coltivazioni arboree, specialmente della vite e dell’ulivo, più convenienti dei cereali, che confluivano ormai dai mercati della Sicilia  della Sardegna, dell’Africa e dell’Asia Minore; il terzo periodo, nell’ultimo secolo della Repubblica, e nei primi decenni dell’Impero, è caratterizzato dall’allevamento del bestiame e dalla cosiddetta “economia della villa” con agricoltura specializzata, orto-frutticoltura e industrie zootecniche minori.
Soltanto nell’Italia settentrionale e in parte della meridionale si conservò invece anche negli ultimi tre secoli della Repubblica, la piccola proprietà.
All’inizio dell’Impero invece, si erano formati i latifondi, vistosi patrimoni terrieri, come quello di Agrippa in Sicilia, o la tenuta di Seneca, magnificata da Columella, per dirne soltanto qualcuno.
Secondo alcuni, tra i quali Plinio, l’Italia fu rovinata dai latifondi: “latifundia perdidere Italiam”; ma questa rovina fu ancora più grave e profonda sui piani sociale morale, politico e militare, mentre su quello economico fece straordinari progressi, grazie all’agricoltura appoggiata a robuste aziende e a grandi capitali.
Nuovi metodi e nuove colture,apprese nei paesi vinti, si diffondono un po’ dappertutto fino a trasformare l’Italia nel giardino del mondo.
Solo più tardi inizierà un lento processo di rilassatezza e di decadenza, al quale per altro concorreranno altri elementi, quali la diminuita natalità, la burocrazia dilagante, la feroce fiscalità e il deprezzamento della moneta.
La rigogliosa agricoltura italica, cominciò a soffrire quando dalle province occidentali,specialmente la Gallia e l’Africa, iniziarono ad arrivare a Roma i prodotti di quelle terre, peraltro introdotti li dai Romani stessi , che fecero una concorrenza spietata a quelli latini.
Accadde così che i produttori romani cercarono prodotti sempre più sofisticati,dedicando loro i maggiori sforzi. Frutta di ogni genere, specie le qualità scelte, fecero la loro comparsa su tutte le tavole dei ricchi e i produttori furono spinti sempre più verso queste produzioni.
Questa situazione, la sostituzione cioè dei prodotti comuni e svalutati dalla concorrenza delle province,con prodotti di lusso e specializzati, si manifestò contemporaneamente anche nell’allevamento.
Varrone infatti raccomanda di allevare di preferenza il pollame e la cacciagione di maggior pregio: oche e polli, fagiani e pavoni, gru, marmotte, cinghiali e ogni altra specie di selvaggina. Nonché l’allevamento dei pesci, nelle apposite pescherie costruite nelle ville in riva al mare.
Dal “De re rustica” di Lucio Giunio Moderato Columella

Coloro che desiderano allevare gli equini, ricordino che la cosa più importante è provvedersi di un capo delle stalle intelligente e attento, e di molta pastura: queste due cose, cibo e cura, possono bastare agli altri animali anche se sono mediocri, ma i cavalli vogliono somma cura e cibo fino a completa sazietà.
Il bestiame equino si divide in tre categorie: c'è una razza più nobile, che offre cavalli per i giochi del circo e per le gare sacre. C'è la razza da muli, che per i guadagni che da con la propria prole si può paragonare alla razza nobile. E c'è finalmente la razza volgare, che produce mediocri maschi e femmine. Ogni razza si alleva in campi più o meno grassi e ricchi a seconda del suo pregio.

I cavalli

Per gli armenti bisogna scegliere pascoli spaziosi, in zone di palude, non di montagna, sempre irrigate e mai aride, vuote e libere piuttosto che impedite di piante, abbondanti di erbe spesse e molli piuttosto che alte. I cavalli della razza volgare si lasciano pascolare insieme maschi e femmine e non si stabiliscono epoche fisse per la monta. Alle cavalle generose invece si congiungono i maschi nella epoca dell'equinozio di primavera, perché possano partorire il puledro circa nella stessa stagione in cui l'hanno concepito, passato un anno, e nutrirlo senza tanta fatica, essendo i campi già floridi ed erbosi; infatti esse partoriscono nel dodicesimo mese. Dunque bisogna far di tutto perché proprio in questa stagione si permettano i congiungimenti alle femmine e ai maschi in amore;  se lo impedissimo, essi verrebbero stimolati da voglie furiose, tanto che si è dato il nome di ippomane a un veleno che accende nei mortali un desiderio simile alla voglia acuta dei cavalli. È certo che in alcune regioni le cavalle arrivano a tale grado di desiderio, che anche non avendo maschio, figurandosi con assidua ed eccessiva cupidità il piacere venereo, concepiscono dal vento, come gli uccelli da cortile. Virgilio non si esprime in termini troppo liberi quando dice:

 «Certo è fra tutti famoso delle cavalle il furore
Quelle l'amore conduce oltre il Gàrgaro, oltre il sonante
Ascanio, e salgono monti e passano fiumi,
appena la fiamma si apprende alle bramose midolle:
e a primavera assai più, che allora ritorna all'ossa il calore.
Stanno rivolte tutte col muso allo Zefìro sugli alti dirupi
e aspirano i soffi leggeri e spesso, del vento
gravide, (mirabile a dirsi) senza altre nozze...»;

Le mule

La cosa più importante nell'allevamento delle mule è di cercare ed esaminare con ogni cura i progenitori della futura prole, maschio e femmina; che se uno dei due non è adatto, poco buono è anche ciò che da entrambi deriva.
Conviene scegliere una cavalla dai quattro ai dieci anni, grande e di bella forma, di membra forti, e molto adatta a sopportare la fatica, perché possa facilmente ricevere e mantenere nel suo ventre il seme estraneo e di genere diverso che le viene imposto, e conferisca non solo alle buone qualità fisiche della prole, ma anche a quelle del suo ingegno. Infatti non solo è difficoltosa l'entrata dei semi nell’organo genitale, il che produce una certa lentezza di animazione, ma anche il frutto del concepimento viene più lentamente a maturità, e a stento, oltrepassato l'anno, può essere partorito nel tredicesimo mese; ai nati poi rimane più attaccata la pigrizia paterna che la vigoria materna.
Eppure è meno laboriosa la ricerca di cavalle adatte a questo scopo che la scelta del maschio; spesso infatti la prova dimostra sbagliato il giudizio di scelta, perché molti stalloni, bellissimi di aspetto producono poi una razza pessima o per forma o per sesso. Per il padrone e un danno notevole, sia che nascano femmine troppo piccole, sia che nascano molti bei maschi al posto delle femmine. E ci sono invece stalloni spregevoli all'aspetto, che sono fecondi di semi preziosissimi. Ce n'è qualcuno che da in eredità ai figli la bontà della razza, ma è poco eccitabile all'amore, perché di indole flemmatica. Allora gli stallieri, gliene fanno nascere il desiderio mettendo vicina una femmina della stessa razza, perché la natura ha fatto ogni animale molto amante dei suoi simili; poi, quando lo stallone è stato blandito dalla presenza dell'asina ed è ormai divenuto quasi ardente e cieco di passione, sottratta quella che era oggetto del suo desiderio, gli fanno montare la cavalla che non voleva.

L'asinello comune

Prendendo a parlare del bestiame di piccola taglia, o Publio Silvino, darò il primo posto all'asinello comune e di poco prezzo, quello piccolo dell'Arcadia di cui la maggior parte dei trattatisti di agricoltura vogliono che si tenga il massimo conto quando si tratta di allevare o comprare animali da trasporto: cosa giustissima, perché questo asinello può essere mantenuto anche nelle campagne che mancano di pascoli, essendo una bestia che si accontenta di poco cibo qualsiasi, si nutre anche di foglie e di spini di macchia o semplicemente di un fascio di stoppie che gli si metta davanti: con la paglia, che abbonda in quasi tutte le regioni, riesce a ingrassare. Inoltre tollera perfettamente le angherie e la negligenza di un allevatore inesperto; sopporta benissimo bastonate e penuria, e perciò presta servizio più a lungo delle altre bestie. Potendo sopportare fatica e fame, si ammala molto di rado. A queste cosi limitate esigenze per il suo mantenimento rispondono servizi veramente necessari e numerosi fuori di ogni proporzione, giacché può lavorare con l'aratro una terra leggera come quella della Betica e di tutta l'Africa settentrionale, e trascinare coi carri pesi tutt'altro che piccoli. «Spesso», come ricorda il celeberrimo poeta,
«il conduttore del tardo asinello di pomi
poveri i fianchi ne carica, e pietra molare al ritorno
o massa di pece nera dalla città ne riporta».
Ecco: proprio il lavoro della macina e della preparazione della farina è il lavoro tipico di questi animali. Per cui ogni fondo abbisogna come di una delle cose più necessarie, di un asinello, che, come ho detto, può inoltre trasportare in città molti utensili e riportarli indietro col basto attaccato al collo o sul dorso.

Criteri nel comperare le pecore e mantenerle in salute

Le pecore tengono il secondo posto, subito dopo gli armenti di bestiame grosso; ma se si guarda all'utile dovrebbero tenere il primo. Esse ci offrono la miglior protezione contro il freddo e sono la fonte più ricca di indumenti per il nostro corpo. E non basta: con l'abbondanza del latte e del cacio saziano la gente di campagna e ornano di piacevoli e svariate vivande anche le delicate mense dei ricchi. Forniscono totalmente il vitto ad alcune tribù, che non conoscono il frumento; ed ecco perché i Greci chiamano i Nomadi e i Geti «bevitori di latte».

Le pecore, dunque, benché siano delicatissime, come fa osservare con grande prudenza Gelso, godono di una salute quasi inalterabile e non sono soggette alle pestilenze. Però bisogna sceglierle in modo che si adattino alla natura della zona; è il famoso criterio che bisogna seguire non in questo caso soltanto, ma in tutta l'economia rurale, come ci insegna Virgilio quando dice: «Non tutte posson le terre tutte produrre le cose».

Una regione pingue e pianeggiante sostenta bene delle pecore alte; una regione poco ricca e collinosa vuoi pecore quadrate; se è silvestre e montuosa pecore piccole; dove si hanno prati e campi piani, si tengono molto bene i greggi di pecore coperte. E non solo delle razze, ma anche del colore del mantello ci deve importare. Quanto alla razza, da noi erano stimate le pecore calabresi, apule e di Mileto, e sopra tutte le tarantine. Ora si ritengono più pregiate le pecore della Gallia e fra esse specialmente quelle di Altino; si pregiano anche quelle che popolano i Campi Macri fra Parma e Modena. Riguardo al colore, il bianco non solo è il più bello ma anche il più. utile, perché dal bianco si possono avere moltissimi altri colori, ma da nessuno si riesce ad ottenere il bianco. Sono anche pregiate per se stesse le lane brune e nere, che danno in Italia le razze di Pollenzo, e nella Betica le razze di Cordova. L'Asia dà lane non meno pregiate di colore rossastro, che chiamano eritree. Ma l'esperienza ha insegnato anche a creare varietà nuove in questi animali. Ai proprietari di un serraglio di animali da spettacolo nel municipio di Cadice erano stati portati dalle vicine coste dell'Africa, insieme con altre bestie, dei meravigliosi arieti selvaggi e feroci di un colore bellissimo. Mio zio Marco Columella, uomo di intelligenza pronta, famoso per la sua scienza agricola, ne comperò alcuni e li portò nei suoi campi e dopo averli domati, li congiunse con pecore coperte. Queste diedero alla luce agnelli di pelo duro, ma del colore paterno, che, congiunti a loro volta a pecore della razza tarantina, progenerarono arieti di lana più fine. I figli di questi, finalmente, ebbero in eredità la morbidezza delle madri e il colore paterno e avito. E Columella diceva che allo stesso modo ogni carattere esterno che vi fosse negli animali selvaggi passava in eredità ai nipoti, benché la selvatichezza si fosse mitigata.

La scelta dell’ariete

Le pecore si dividono in due grandi gruppi: le morbide e quelle a vello irsuto. Nel comprare e nel mantenere le une e le altre, molte avvertenze valgono ugualmente per i due tipi, altre invece valgono solo per la razza più pregiata. Le prime, cioè le avvertenze che si devono tener presenti nel comperare tutti i greggi, si possono ridurre a questo: se ci piace la lana bianchissima, non sceglieremo mai altro che maschi perfettamente candidi; da padre bianco vengono spesso agnelli neri, ma da padre rosso o bruno non deriva mai un capo bianco.

 Come si riconoscono i buoi di buona razza

Non è facile fissare i caratteri che vanno cercati e quelli che vanno fuggiti nell'acquistare dei bovi, giacché la struttura del corpo, l'indole e il colore del mantello degli animali variano col variare delle condizioni ambientali e climatiche. Altro è l'aspetto del bestiame dell'Asia, altro quello delle mandrie di Gallia e dell'Epiro. E non solo differiscono fra loro le province, ma l'Italia stessa presenta diversità dall'una e all'altra delle sue parti: la Campania produce per lo più buoi bianchi e di piccola taglia, ma resistenti e adatti alla coltivazione della terra in cui nascono; l'Umbria ha buoi di grande mole, pure bianchi, e ancora un'altra razza rossiccia, pregiata quanto la prima per indole e forze fisiche; l'Etruria e il Lazio hanno buoi tozzi, ma forti sul lavoro; l'Appennino buoi resistentissimi e capaci di sopportare qualsiasi avversità, ma punto belli d'aspetto. Le qualità esteriori sono dunque molto varie e addirittura opposte, ma ci sono criteri quasi comuni e precisi che l'aratore deve tener presenti nel comperare i buoi; seguo nell'esporli l'ordine in cui li ha insegnati il cartaginese Magone. Si devono cercare buoi giovani, quadrati, con membra grandi, corna lunghe, scure e robuste, fronte larga e rugosa, orecchi dritti, occhi e labbra nere, narici camuse e larghe, cervice lunga e muscolosa, giogaia ampia e pendente fino quasi alle ginocchia, petto grande, spalle vaste, ventre ampio e tondeggiante quasi come quello di una bestia pregna, costato lungo, regione dorso-lombare larga, dorso diritto e piano, o anche un poco calante, natiche rotonde, zampe tozze e dritte, piuttosto corte che lunghe, con ginocchia ben fatte, zoccoli grandi, coda lunghissima e pelosa, pelo fitto e breve su tutto il corpo, di colore rossiccio o bruno, molto morbido al tatto.

Le capre

Siccome ho parlato abbastanza delle pecore, verrò ora alle capre. Questo animale preferisce le macchie e i roveti alla pianura erbosa e si alleva anche nei luoghi montuosi e silvestri, perché ama i rovi, non si fa male fra gli spini e mangia volentieri soprattutto le fronde degli arbusti e degli alberi di macchia. Questi sono il corbezzolo, l'alaterno e il citiso selvatico, e ancora gli arbusti di elce e di quercia, che non sono cresciuti in altezza.
Si ritiene migliore fra tutti il capro al quale sotto le mascelle pendono due specie di piccole verruche, di corpo molto grande, di zampe carnose, di cervice piena e corta, orecchi molli e come pesanti, testa piccola, pelo nero, fitto, brillante e lunghissimo. Anch'esso infatti viene tosato «per far tende ai soldati o vele a chi, misero, naviga». Quando ha sette mesi è già abbastanza adatto alla generazione; di smoderata libidine, mentre ancora è unito alle poppe salta sulla madre e la viola; perciò prima dei sei anni rapidamente invecchia, perché si è già esaurito nei primi tempi della puerizia con lascivia intempestiva. Già a cinque anni si ritiene poco adatto a coprire le femmine.
La capra che si considera migliore è quella che maggiormente somiglia al caprone che abbiamo descritto, purché abbia anche mammella grandissima e produca moltissimo latte. Dove il clima è calmo, ci procureremo bestie senza corna; dove è procelloso e piovoso, sempre cornuto. In qualunque regione tuttavia conviene mutilare le corna al marito del gregge, giacché i maschi con le corna sono sempre pericolosi, per la mania di cozzare.
Non conviene tenere un numero di capre superiore a cento nello stesso chiuso, mentre le pecore stanno benissimo anche in mille nella stessa stalla. Quando si comprano le capre, è meglio prendete tutto un gregge in una volta, piuttosto che formarlo con capi provenienti da vari greggi, per non dover poi separare i gruppi anche nel condurle al pascolo e perché stiano quiete nella stalla, in maggior concordia fra di loro.
A queste bestie nuoce il caldo, ma ancor più il freddo, e specialmente nuoce alle gravide, perché invernati di brina abbondante producono l'aborto. Ne solo queste cause producono aborti, ma anche le ghiande se sono date in quantità insufficiente a saziarle. Perciò non si devono lasciar mangiare alle bestie, se non si può darne loro a volontà.
Consiglio di scegliere quale tempo dell'accoppiamento l'autunno, avanti il mese di dicembre, perché i capretti vengano alla luce all'avvicinarsi della primavera, quando su tutte le macchie sbocciano le gemme e le selve germogliano di fronde nuove.
Bisogna scegliere per il caprile un luogo che sia naturalmente pavimentato di sasso, oppure pavimentarlo apposta, perché per queste bestie non si stende nessuna lettiera. Il pastore diligente scopa ogni giorno la stalla e non permette che lo stereo e l'orina vi si fermino sino a trasformarsi in fanghiglia, perché la sporcizia è nociva alle capre.
Una capra di buona razza partorisce spesso due e anche tre capretti. Pessime sono le nascite quando ogni due madri nascono tre capretti. Quando questi sono nati, si allevano allo stesso modo degli agnelli, tranne che bisogna frenare e impedire di più l'eccessiva vivacità dei capretti. Inoltre, bisogna dar loro non solo latte in abbondanza, ma anche seme d'olmo, di citiso, di edera o anche cime di lentisco e altre foglie tenere. Dei gemelli, uno solo, e precisamente quello che appare più robusto, si alleva per colmare i vuoti del gregge, gli altri si danno ai mercanti. Non bisogna far allevare i capretti dalle madri che hanno un anno o due, giacché a quest'età possono già partorire, ma prima dei tre anni non debbono allevare. Alle capre di un anno bisogna subito togliere la prole; a quelle di due lasciarla solo fino a tanto che si possa vendere. Ma non bisogna conservare le madri più di otto anni; a quest'età, affaticate dai continui parti, divengono sterili.
Il pastore di questo gregge deve essere vivo, duro, attento, capace di sopportare la fatica, alacre, audace, tanto da saper andare con facilità fra dirupi e macchie e nei luoghi solitari; e non segua le sue bestie, come per lo più fanno i pastori degli altri greggi, ma le preceda. La capra è un animale molto ardito, che corre avanti, e continuamente quella che corre va subito frenata, perché non si allontani, ma bruchi placida e lenta, e gonfi la mammella di latte e non sia troppo magra.

I suini

In ogni genere di quadrupedi si sceglie con particolare diligenza il maschio, perché è più frequente che la prole assomigli al padre che alla madre. Per conseguenza anche nei suini bisogna scegliere dei maschi eccellenti per la grandezza di tutto il corpo, ma che siano di conformazione quadrata piuttosto che lunga o tondeggiante, di ventre basso, di cosce molto sviluppate, ma non di gamba o di zoccolo alto, di collo ampio e glandoloso, di grifo corto e camuso. È molto importante e utile che siano salacissimi quando montano. Possono benissimo generare da quando hanno un anno e continuare finché ne hanno quattro; ma anche a sei mesi sono già adatti a fecondare la femmina.
Quanto alle scrofe, si scelgono quelle di corpo molto allungato, ma riguardo alle altre parti del corpo devono essere simili ai verri descritti. Se la regione è fredda e soggetta alle gelate, bisogna scegliere un gregge vestito di setole durissime, dense e nere; ma se è temperata e soleggiata, si può allevare un gregge glabro o anche la varietà bianca cosiddetta da mugnaio. La femmina del maiale si ritiene adatta alla generazione circa fino ai sette anni, ma quanto più è feconda, tanto più celermente invecchia. Può già concepire bene quando ha un anno, ma deve essere fecondata nel mese di febbraio, in modo che, dopo quattro mesi di gravidanza, al quinto partorisca, quando già le erbe hanno una certa consistenza e cosi i porcellini godano di un latte ben maturo e forte, e quando saranno svezzati si pascano di stoppie e di semi che cadono dai baccelli. Cosi si fa nelle regioni isolate, dove non conviene far altro che allevare tutta la covata. Ma nelle aziende suburbane conviene cambiar di porcile il lattonzolo; la madre, non essendo sottoposta all'allattamento, viene risparmiata e può più presto partorire di nuovo. In generale partorirà due volte all'anno.
I maschi si castrano o a sei mesi, quando incominciano ad essere adatti alla monta, o a tre o quattro anni, quando hanno già più volte servito alla riproduzione; in questo modo possono ingrassare. Anche alle femmine si feriscono col ferro le vulve, che vengono chiuse dalle cicatrici; cosi non sono più adatte a generare. Ma non capisco quale ragione possa indurre a far questo, se non la sola penuria di mangime. Infatti, dovunque c'è abbondanza di pascolo, conviene sempre avere prole.Queste bestie prosperano qualunque sia il genere di terreni in cui si trovano; si allevano bene in montagna e in pianura, con preferenza dei terreni paludosi rispetto a quelli aridi. L'ideale per l'allevamento dei maiali sono i boschi che si vestono di quercia, di sughero, di faggio, di cerri, di elci, di oleastri, di terebinti, di noccioli e di tutti gli alberi da frutto selvatici, come sono il biancospino, il carrube, il ginepro, il loto, la vite, il corniolo, il corbezzolo, il prugno selvatico, il marrobbio e il pero selvatico. Tutti questi alberi, infatti, maturano i loro frutti in epoche diverse e servono a saziare il gregge quasi per tutto l'anno. Ma dove c'è penuria di piante, ci volgeremo al pascolo offerto dalla terra, preferendo i pascoli paludosi a quelli aridi, perché i porci potranno scavare tra il fango col grifo e trovare lombrichi e voltolarsi nella mota, cosa graditissima a queste bestie, e immergersi anche,       il che, specialmente d'estate, è per essi molto igienico; cosi pure è bene che sradichino le radici dolci delle piante acquatiche, per esempio del giunco d'acqua, del giunco ordinario e della canna degenere, quella appunto che il volgo chiama cannuccia. Ma anche un campo coltivato rende ottimi i maiali, quando è ricco di erbe graminacee e piantato con alberi da frutto diversi, in modo da offrire loro, secondo le stagioni, mele, prugne, pere, noci, mandorle e fichi. Ciò nonostante non si risparmiano i granai; bisogna spesso gettar loro qualche cosa da mangiare, quando fuori manca il pascolo. Bisogna dunque riporre grandi quantità di ghiande, tenendole o nell'acqua in cisterne o esposte al fumo su tavolati. Quando il prezzo esiguo lo permette, bisogna dar loro anche fave o altri legumi, e ciò va fatto sempre in primavera, quando i pascoli erbosi o comunque verdi, essendo ancora lattiginosi, generalmente fanno male ai maiali. E ugualmente la mattina, prima che vadano al pascolo, si devono saziare con cibi conservati, perché non mangino l'erba ancora immatura, che provocherebbe diarrea e quindi magrezza.
I maiali non possono essere rinchiusi tutti insieme come gli altri greggi, ma bisogna fare stalletti separati lungo un muro, in cui si rinchiudano le scrofe dopo che hanno partorito e anche quelle gravide. Infatti le femmine in modo speciale, quando sono rinchiuse a gruppi e senza ordine, si sdraiano le une sulle altre e cosi abortiscono. Ecco perché bisogna costruire come ho detto stalletti divisi da muri, che abbiano quattro piedi di altezza, perché la scrofa non possa saltare fuori. Ma non si devono chiudere in alto, perché il guardiano possa verificare il numero dei porcellini.

Le galline da cortile

La gallina da cortile è quella che si vede generalmente in quasi tutte le fattorie; la gallina selvatica, molto simile alla gallina da cortile, è oggetto di caccia da parte degli uccellatori: ne vivono moltissime in quell'isoletta del mar Ligure che i naviganti, allungando il nome del volatile, chiamano Gallinaria; l'africana, che quasi tutti chiamano numidica, è simile alla meleagride, tranne che porta i bargigli e la cresta rossi, mentre nella meleagride sono cerulei.
Dì queste tre razze, si chiamano propriamente galline solo le femmine di quella da cortile; i maschi poi si dicono galli e i mezzi maschi capponi: questo è il nome che si da ad essi, quando si sono castrati per abolirne la libidine. Ne questo succede solo se si tolgono gli organi genitali, ma anche se si bruciano gli speroni con un ferro incandescente e, quando il fuoco li ha consumati, le piaghe prodotte si spalmano di creta da vasaio.
Il reddito che può offrire questo genere di animale da cortile non è affatto da disprezzare, se si adopera la tecnica di allevamento che hanno molto usato quasi tutti i Greci e soprattutto gli abitanti di Delo; però questi, siccome ricercavano corpi molto grossi e spirito battagliero e pertinace, consideravano soprattutto le razze di Tanagra e di Rodi, e cosi pure la calcidica e la medica, che il volgo ignorante, cambiando una lettera, chiama melica.
A me curare il vantaggio di un industrioso padre di famiglia, non già del padrone di un circo di galli battaglieri, a cui capita bene spesso che un gallo vittorioso, uccidendo il suo, gli porti via tutto il patrimonio che egli aveva rischiato nel duello.
Chi dunque vorrà seguire i miei insegnamenti, deve prima di tutto sapere quante galline riproduttrici procurarsi e di quale tipo; poi come tenerle e nutrirle; poi in quali tempi dell'anno conviene avere da esse i pulcini; finalmente fare in modo che le uova vengano ben covate e si schiudano; e in ultimo procurare che i pulcini siano bene allevati. Di tali cure e di tali occupazioni infatti si compone l'allevamento dei polli, che i Greci chiamano ornithotrophìa. Ora, la quantità di galline che è bene procurarsi è di duecento capi al massimo, quanti cioè possono impegnare l'attività di un solo custode; quando poi si lasciano libere, si facciano custodire da una attiva vecchietta o da un fanciullo, per impedire che vengano rubate da qualche ladruncolo o dagli animali selvatici. Bisogna considerare che conviene comperare soltanto galline molto feconde; siano poi di piumaggio rossiccio o scuro e abbiano penne maestre nere; anzi, se è possibile, si scelgano tutte di questo colore o almeno di colori che ad esso si avvicinano : se non altro si evitino quelle bianche, le quali in generale, sono delicate e meno vivaci, non solo, ma difficilmente si mostrano feconde. Inoltre, essendo molto visibili per la bianchezza che le fa riconoscere da lontano, molto spesso sono preda di sparvieri e di aquile. Le galline riproduttrici siano dunque di colore rossastro, quadrate, pettorute, con testa grande, con la piccola cresta diritta e scarlatta.

By Francesco Mascioli in http://www.cucinaconoi.it/ edited by Leopoldo Costa to be posted.

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