1.05.2012
L'ALLEVAMENTO ITINERANTE E INTEGRATO ITALIANO
Nel paesaggio agricolo italiano restano ancora notevoli testimonianze dell'allevamento itinerante praticato attraverso le due formule tradizionali dell'alpeggio e della transumanza, grazie alle quali venivano assicurati i pascoli necessari ai bovini e agli ovini durante lintero arco dell'anno. La pratica della monticazione e demonticazione del bestiame bovino (alpeggio) ha consentito fino ad oggi lo sfruttamento razionale dei pascoli alpini, essendo riuscita ad adattarsi alle esigenze delleconomia di mercato, mentre lo spostamento periodico degli ovini (transumanza) ha subìto trasformazioni tanto radicali da cancellare di fatto, nell'attuale organizzazione del territorio, quel complesso sistema di comunicazioni e di scambi che capillarmente scandiva i ritmi e i passaggi dei pastori dalle montagne appenniniche alle pianure litoranee tosco-laziali e pugliesi. La transumanza differisce in fatti dall'alpeggio, oltre che per la specie allevata, anche per il maggiore raggio di migrazione delle greggi e per la netta separazione tra la proprietà delle aree pascolative sia pubbliche sia private e la proprietà degli armenti. Proprio questa separazione per un verso imponeva il generale coinvolgimento giuridico-istituzionale, oltre che economico-sociale, delle comunità presenti nelle regioni attraversate e per altro verso permetteva il minore coinvolgimento nello spostamento periodico dell'attività pastorale del nucleo familiare, sempre stanziale. Nella pratica dell'alpeggio, lo spostamento dei bovini avveniva invece con il trasferimento, insieme alle mandrie, dell'intera famiglia che saliva dalle valli intermontane e dalla pianura Padana sui vicini rilievi alpini: ai «maggenghi», situati al di sotto dei 1 800 m s.l.m. per i pascoli primaverili e autunnali, e ai pascoli estivi in quota, dove alpi, malghe e casere si spingevano fino ai 2 500 m di altitudine. Tra i prato-pascoli primaverili ed autunnali e quelli estivi degli alpeggi in quota restano ancora oggi ampie aree boscate, interrotte da radure prative ben documentate dalla cartografia a grande scala. Per le unità produttive della media valle del Po larea di elezione era generalmente rappresentata dai rilievi bergamaschi, tanto che la pratica prendeva il nome di «bergamina ». Il fenomeno dell'alpeggio abbracciava tuttavia lintero arco alpino, dalla Val d'Aosta al Trentino Alto-Adige. In questultima regione linsediamento agricolo-pastorale è ancora oggi rappresentato dai masi, ampiamente documentati nei toponimi presenti sempre nella cartografia a grande scala. Vera e propria istituzione giuridico-economica il maso chiuso ha perpetuato nei secoli l'organizzazione delle proprietà fondiarie attraverso il diritto germanico di successione al solo primogenito maschio, abolita solo nell'anno 2001. Altrettanto antica e radicata nella tradizione storico-culturale delle nostre campagne centro-meridionali è la transumanza, una pratica che ha assunto la sua forma più complessa ed originale lungo la fascia adriatica, che si estende dall'Abruzzo alla Puglia. Il fenomeno ha trovato il suo primo assetto organico già in età Romana e il suo pieno sviluppo con la riorganizzazione e l'istituzione nel 1447 della «Dogana della mena delle pecore» da parte di Alfonso I d'Aragona. Utilizzata dai pastori per allargare gli spazi pascolativi appenninici alle aree pianeggianti costiere, la transumanza, tra il XVI e il XVII secolo, spostava circa 2 milioni e mezzo di capi per i quali la Dogana ebbe giurisdizione su ben 380 000 ettari di territorio, necessari ad assicurare il pascolo delle greggi durante il trasferimento. Una ricca terminologia specialistica, che ha attinto alle fonti dei dialetti locali, sopravvive nella toponomastica delle regioni centrali e meridionali del nostro paese (stazzi, procoi, iacci, mandre, tratturi) a testimonianza del fatto che le vie di attraversamento dei rilievi appenninici, dai pascoli invernali alle pianure pugliesi con uno sviluppo di circa 3 100 km costituivano un vero sistema infrastrutturale di comunicazione. Denominate tratturi con un termine onomatopeico che ricorda la frequenza del calpestio degli ovini sul terreno erano organizzate gerarchicamente (tratturi, tratturelli, bracci tratturali) in rapporto alla loro direzione ed ampiezza. I tratturi (larghi circa 112 m) si disponevano longitudinalmente da nord-ovest a sud-est, parallelamente alla costa adriatica, nella stessa direzione scelta oggi dalle moderne autostrade che ne ricalcano in larga parte gli itinerari; le vie trasversali (tratturelli e bracci tratturali) garantivano invece il collegamento tra i tratturi principali e tra questi e le aree più interne ed elevate (la loro larghezza non superava i 38-12 m).
Negli anni Trenta del secolo scorso le superfici della rete tratturale, già ampiamente erose dalle occupazioni dei proprietari confinanti, vennero cedute dal demanio nazionale e destinate ad altri usi, ad esclusione di quelle occupate dai 4 tratturi principali: LAquila-Foggia, Celano-Foggia, Castel di Sangro-Lucera e Pescasseroli-Candela. Dei 21 000 ha di rete tratturale presenti tra i secoli XVI e XVII secolo, restano oggi solo 6 000 ha, attribuiti ai demani regionali.
Adocumentare lestensione e il peso che l'allevamento ovino ha avuto nel nostro paese sono, insieme alla cartografia storica e recente in cui i percorsi pastorali sono simbolicamente rappresentati con ampie linee verdi o puntinate, i numerosi toponimi e alcuni espressivi manufatti edificati per le esigenze dell'allevamento transumante: ripari trulliformi, chiese costruite sulle vie pastorali, taverne e abbeveratoi, che nel Gargano e nel Salento prendono il nome di «cutini», «pozzelle» e «piscine». Riscoperta e raccomandata dai più attuali studi di ecologia e di agronomia per la gestione ottimale delle risorse ambientali e della funzionalità aziendale, l'associazione delle due pratiche agricole delle colture e dell'allevamento stenta a riaffermarsi, perché obbliga il conduttore ad una presenza che, in termini quantitativi e qualitativi, chiede un impegno operativo e temporale superiore a quello imposto dalla specializzazione produttiva colturale o allevatrice. L'allevamento integrato, ancora mezzo secolo fa, era una costante nello sfruttamento agricolo delle proprietà fondiarie: i bovini, oltre alla carne ed al latte per l'alimentazione, assicuravano laiuto per il lavoro dei campi e lo stallatico per la loro concimazione. All'ingrasso dei suoli e ad arricchire le diete alimentari della famiglia contadina contribuivano inoltre, e non marginalmente, gli animali di bassa corte (polli, conigli e colombi), mentre suini ed ovini rappresentavano l'indispensabile apporto complementare all'autoconsumo e al reddito familiare. Di questa complessa organizzazione funzionale dell'attività e dell'azienda agricola fanno fede, ancora oggi, le dimore e i complessi rurali edificati, tanto al nord quanto al sud della nostra penisola, intorno a spazi chiusi o aperti a seconda dell'esigenza di tenere il bestiame più o meno separato dalle coltivazioni (corti, cascine, masserie, casali. Lintegrazione delle due pratiche agricole dava e al tempo stesso traeva vantaggio dalla «rotazione» dei campi coltivati e dall'avvicendamento colture maggese, foraggere-colture, organizzata secondo ordinamenti produttivi nei quali coltivazioni e allevamenti si associavano non soltanto nelle aree fertili pianeggianti e collinari, ma anche sui terreni meno feraci. Oggi i vari gradi di integrazione tra le pratiche colturali e allevatrici, all'interno di un'azienda, trovano espressioni tecniche appropriate se si distingue l'allevamento in «combinato», «associato» e «giustapposto», a seconda dell'ordinamento produttivo adottato dall'azienda, cioè in relazione al peso che questa attività ha nel complesso della gestione e dell'economia dell'impresa. L’attività allevatrice può infatti entrare nell'organizzazione aziendale o in forma marginale o a pieno titolo. Nel primo caso viene ad integrare la PLV, che deriva dalle pratiche colturali e resta confinata su quelle terre e su quei campi che difficilmente verrebbero dissodati e messi a coltura (allevamento combinato); nel secondo caso l'attività allevatrice condiziona l'intero ciclo produttivo dell’azienda (allevamento associato), imponendo l'ordinamento colturale più idoneo al bestiame (foraggi, mais, leguminose) in un circuito di scambi reciproci che ottimizza gli aumentati sforzi del conduttore. Oggi per la gestione dello stallatico del bestiame sono state sviluppate tecnologie da vanguardia: sia per labbattimento del BOD (ossigeno necessario alla degradazione della sostanza organica) e la riduzione degli agenti patogeni e degli antibiotici, attraverso l'accumulo e la conservazione apposite vasche di cemento o in laghetti in terra opportunamente impermeabilizzati, detti lagoons; sia per lo sfruttamento e la produzione di energie alternative, attraverso il recupero delle biomasse. Quando l'integrazione delle due pratiche agricole di colture-allevamento viene invece attuata solo a livello di gestione economica dell'impresa (allevamento giustapposto), il settore zootecnico resta del tutto separato dalle attività colturali presenti nell'azienda; in quest'ultimo caso l'allevamento è in genere stabulato, realizzato secondo il modello dell'allevamento stanziale i cui caratteri sono decisamente più esasperati Per il fatto che oggi l'allevamento si concentra o nelle aziende prive di terreno agrario, cioè del tutto separato dalle pratiche colturali (giustapposto), o in quelle di maggiori dimensioni superficiali (oltre i 100 ha), dove è relegato sui terreni di peggiore qualità (combinato), l'integrazione tra le diverse pratiche agricole resta più che un modello economico-funzionale da riproporre (associato), un obiettivo di sviluppo sostenibile da raggiungere. Proprio a causa dell'esasperata concentrazione e specializzazione, l'attività all'evatrice non rappresenta più una realtà produttiva capace, come nel passato, di valorizzare il territorio, neppure là dove la presenza del bestiame al'larga gli spazi pascolativi in sostituzione degli ordinamenti colturali estensivi o intensivi. Troppo spesso l'allevamento finisce infatti con laccelerare la marginalizzazione delle campagne: è questo il caso ad esempio dell'agro romano e della Maremma interna, dove la diffusione dell'affittanza si associa sempre alla destinazione delle superfici locate al prato-pascolo per le greggi, ed è all'opposto anche il caso delle pianure sarde, dove l'introduzione dell'allevamento ovino stanziale ha finito per sottrarre superfici utili alle coltivazioni.
Scritto per MARIA GEMMA GRILLOTTI (Università degli Studi «Roma Tre») pubblicato come 'Spazi dell'allevamento itinerante e integrato'. Disponibile all'indirizzo: http://www.igmi.org/pubblicazioni/atlante_tipi_geografici/pdf/agricoltura.pdf. Modificati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
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