Conservare i frutti
Nel recente saggio di Massimo Montanari ('Il Cibo Come Cultura', Laterza, Bari 2005) si sostiene che è solo nel Medio Evo che avviene la nascita della cucina popolare e moderna per l’incontro tra “il modello produttivo di tradizione greco-romana, fondato sull’ agricoltura, e quello germanico basato sullo sfruttamento delle foreste”. In realtà questo incontro avviene molto prima e proprio in Cisalpina, dove l’influenza etrusco-italica e poi romana si fonde nella cultura alimentare con il forte radicamento nell’economia della foresta di Celti e Liguri, testimoniato nella tradizione della sacralizzazione degli alberi utili e nel nome di popoli come i Bagienni (da bhagos – “faggio”).
La tradizione della coltura del bosco e del mantenimento selettivo di querce e faggi per i frutti edibili da animali e, in caso di penuria, anche dall’uomo resta forte in Piemonte nella protostoria. Ghiande e nocciole tostate sono state trovate come offerte in numerose tombe a cremazione fin dall’età del Bronzo. Dopo i semi di lino e di papavero, diffusi fin dal Neolitico, la nocciola, anche pestata, rappresentava la principale fonte endemica di olio alimentare in Cisalpina. Le nocciole tostate in particolare, favorite dalla rapida diffusione dell’arbusto nelle radure intorno agli abitati e nelle zone di taglio del bosco, sono ripetutamente documentate come offerta funeraria aggiunta ai resti della cremazione a partire dall’XI secolo a.C. D’altra parte, in un momento in cui il noce selvatico produceva ancora frutti con spesso mallo (usato in particolare per nutrire e tingere i capelli neri delle donne) e piccole noci, prima della diffusione della Junglans regia in età romana, a partire dalla Campania (“noce di Sorrento”), la nocciola risultava più redditizia della noce anche come apporto oleico: se ne ricavava una pasta conservata in vasi coperta dal suo stesso olio (come una analoga conserva oleosa fatta con i minuscoli semi di papavero e le tahine di sesamo ancora oggi nei paesi arabi), che resterà tradizionale della cucina povera in Piemonte anche nelle miscele per torte, tanto da costituire, con l’arrivo del cacao in età moderna, la base fondamentale della crema gianduia.
La necessità di conservare la frutta durante l’inverno crea la tradizione di conserve con miele, ben attestata ancora nella cucina romana ed in generale del simbolismo della conservazione che tutto il mondo antico attribuisce alle api ed al miele. Ma è soprattutto a partire dai primi momenti della romanizzazione che sembrano diffondersi anche in Piemonte le salse con mosto cotto (mostarde) Venivano in tal modo conservate le mele scottate, in particolare quelle piccole ed aspre di origine selvatica che difficilmente potevano venire mangiate crude (i Romani probabilmente introdurranno la coltivazione del cotogno asiatico anche in Cisalpina) insieme ad aromi, nocciole, frutta secca. Nasce così la tradizione della cognà (“cotognata”) piemontese, la vera mostarda originaria, prima della diffusione della senape, in particolare modo come salsa per la carne di maiale. Oggi il nome della senape in francese deriva dalla tradizione di queste salse di mosto, mentre la mostarda cremonese e vicentina riprendono la tradizione della conserva di frutta della pianura padana, aggiungendo però il piccante della senape.
Una farina zuccherina ricavata dalle sorbe secche pestate, come testimoniato anche dalle Georgiche, era abitualmente utilizzata per aumentare la gradazione delle birre e talvolta mescolata al pane nelle situazioni di penuria. La diffusione del castagno, iniziata nella seconda età del Ferro ed esplosa con l’età romana, si inserisce in questo solco, fornendo un frutto di facile essiccazione e conservazione, con cui può essere preparata una eccellente farina, adatta per pappe, gnocchi, farinate, per essere addizionata al pane e anche per essere associata nella preparazione della birra.
Le conserve di pesce
Fin almeno dall’età del Ferro, con la cultura di Golasecca (IX-V secolo a.C.), era diffusa nel Lago Maggiore e nel Lago di Como la pesca dell’agone o cheppia con reti a sacco, raffigurate anche in un graffito su un bicchiere del VII secolo a.C. da Castelletto Ticino, secondo sistemi economici ricordati ancora da Plinio il Vecchio in età romana.
L’alosa, cheppia o agone, detta anche sardina di lago o salaccia, era diffusissima nei grandi fiumi e nei laghi, dove veniva pescata a rete fino quasi ai giorni nostri, e raggiungeva branchi molto numerosi e dimensioni ragguardevoli nei grandi laghi lombardo-piemontesi, sostituendo ancora in età storica la pesca di altre specie, come il carpione (trota endemica del Lago di Garda) in area benacense. Era facile pescarla approfittando dell’abitudine di questo pesce di concentrarsi in fitti branchi, come le sardine, in presenza di un predatore, che fosse un grosso salmonide o un luccio.
Fino a pochi decenni fa erano abituali sul lago Maggiore e sul lago di Como i filetti di agone appesi a lunghi fili per essiccare al vento invernale freddo e secco (con la tecnica applicata per il merluzzo allo stoccafisso) o al sole, mentre gli esemplari più piccoli erano lasciati macerare nel sale senza nemmeno diliscarli. Era possibile anche una tecnica mista come nella antica tradizione tipicamente lombarda ed ancora attuale del missoltino. Per diventare missoltino, l'agone subisce una complessa lavorazione: i pesci vengono desquamati e privati delle interiora, strofinati con sale e, dopo un eventuale taglio dorsale, vengono deposti in una marmitta, ancora con sale, ove vengono rivoltati ogni 12 ore. La quantità di sale è critica per la successiva lavorazione, con percentuali variabili in funzione di pezzatura, temperatura e umidità. Dopo un paio di giorni, vengono risciacquati e infilzati in uno spago, così da poterli essiccare all'aria aperta. L'essiccamento procede per alcuni giorni, poi i pesci sono disposti in un contenitore (missolta, originariamente di legno), insieme a erbe aromatiche (alloro o altro). I vasi vengono chiusi ed il coperchio (un disco mobile di legno) esercita una leggera pressione, modulata dalla sovrapposizione di più vasi e da sassi. La pressatura procede per un minimo di un paio di settimane a tre mesi, con l’eliminazione del liquido fuoriuscito. Alcuni reperti dagli abitati di Castelletto Ticino, in particolare vasi sfondati con un disco di ceramica sul fondo per coprire senza trattenere liquidi, sembrano suggerire una attività analoga già nell’VIII-VII secolo a.C.
La alosa, marina e d’acqua dolce, era detta in ligure ed in celtico alaussa (da cui il nome ancora attuale di alosa) o alauca, con un termine che per l’ambito marino si estendeva probabilmente anche all’acciuga. Una iscrizione databile intorno al 575 a.C. da Castelletto Ticino ce ne conferma il nome e l’uso: il testo, inciso prima della cottura in celtico cisalpino su un coperchietto di impasto, [al]auxi (dativo strumentale o di termine, « con - o per - l’alosa ») ci dimostra l’utilizzo probabile di una salsa analoga a quella che i romani conosceranno come allec, latinizzando il termine celtico, simile alla nostra pasta di acciughe. Sarà infatti questa salsa a dare il nome “alici” in italiano alle acciughe.
La tradizione di una salsa salata di pesce perdurerà in Piemonte, fornendo tra l’altro un ingrediente fondamentale alla tipica bagna cauda piemontese, sostituendo gradualmente con il miglioramento dei collegamenti la pasta di acciughe liguri ai pesci d’acqua dolce locali.
Scritto per Filippo Maria Gambari e Marica Venturino Gambari . Disponibile all'indirizzo: http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/alimentazione/sezioni/origini/articoli/conserve.html . Modificati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa
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