La modernità secolarizzata non cancella le fedi ma le costringe a reinventarsi in forme nuove.
In Nepal la dea Kumari è sopravvissuta alla rivoluzione maoista. Ogni anno a Katmandu una bambina, scelta a due anni e segregata come dea vivente fino alla pubertà, è portata in processione per tre giorni. Secondo tradizione, al culmine della festa la dea bambina benedice il re, marcandogli la fronte con un segno rosso. Dopo la fine della monarchia hindu nel 2008 e l’instaurazione di una repubblica laica, il rito non è cambiato. Spetta sempre a Kumari legittimare ritualmente il potere, anche se a ricevere la benedizione è ora il presidente. Gli attivisti dei diritti umani hanno chiesto alla Corte suprema di proteggere i diritti delle minori, riformando il rito della Kumari. I giudici nepalesi hanno riconosciuto la giurisdizione dello Stato sulla religione, nell’interesse di un’efficace riforma sociale, ma hanno deciso che nel caso della Kumari il cambiamento deve avvenire dal basso, dalla comunità, nel rispetto della tradizione.
Quello del Nepal è solo uno dei mille esempi di un mondo contemporaneo in cui è sempre più difficile distinguere secolare e religioso. È superato ovunque il paradigma di una modernità che si realizza separando una sfera pubblica secolare, luogo dinamico dello scambio politico ed economico, da una sfera privata religiosa, luogo statico del rito e dell’obbedienza. Questo paradigma, a torto o a ragione identificato con la modernizzazione all’occidentale, non è l’unica via possibile. Nel 2000 il sociologo israeliano Shmuel Eisenstadt ha suggerito il paradigma alternativo di «modernità molteplici»: le società mutano e si adeguano al tempo moderno secondo esperienze e modelli diversi. Secondo altri studiosi, da Casanova a Taylor, una lettura della secolarizzazione come irreversibile processo di esautoramento del sacro non coglie la realtà. Le nostre, ha suggerito Habermas, sono «società post-secolari», in cui religioso e secolare convivono, si intrecciano e si fecondano.
Un volume in uscita a dicembre (Multiple Modernities and Postsecular Societies, Ashgate, pp. 200, £ 55) ricorre alle due ipotesi delle «modernità molteplici» e delle «società post-secolari» per ritrarre un Dio dalle cinque anime. I due curatori, Massimo Rosati dell’Università di Roma Tor Vergata e Kristina Stoeckl dell’Università di Vienna, ci invitano a seguire gli autori dei vari capitoli in un viaggio intorno al mondo. Ugur Kömeçoglu studia i due opposti modelli turco e iraniano, espressi dal velo vietato negli uffici turchi e obbligatorio in Iran. Il sociologo di Istanbul sottolinea come l’egemonia dello Stato sulla definizione del secolare e del religioso venga messa in discussione dal basso, nelle pratiche sociali.
Tanto la laicità turca reislamizzata quanto lo sciismo di Stato iraniano, secondo Kömeçoglu, soffrono delle ibridazioni tra nuovo Islam e costumi della modernità occidentale: dagli hamburger speziati dei McDonald’s turchi alle gigantografie di Khomeini accanto ai fast food di Teheran, dalla pubblicità televisiva degli hotel per musulmani sulle coste turche allo smercio in Iran della Zam Zam Cola, blasfemo connubio tra la bibita simbolo del consumismo occidentale e l’acqua sacra del pellegrinaggio alla Mecca.
Alexander Agadjanian racconta i passati tentativi di imporre alla Russia la modernità occidentale e denuncia il paradosso attuale della crescente ambizione pubblica della Chiesa russa in un Paese sempre più socialmente secolarizzato. Il conservatorismo sociale e l’attivismo politico sono la risposta dell’ortodossia. russa alla duplice minaccia che deriva dall’Europa secolare e dalla crescente multireligiosità del Paese: è questo, secondo Kristina Stoeckl, un esempio ulteriore di alternativa religiosa alla modernità liberaldemocratica. Analoghi percorsi di reinvenzione di una moderna religiosità nelle società post-secolari sono proposti da Chiara Letizia per il Nepal maoista della Kumari e da Peter Wagner per Brasile e Sudafrica.
Nella Nigeria descritta dal sociologo padovano Enzo Pace, le Chiese pentecostali e carismatiche forgiano una modernità emancipata dalla connotazione dogmatica e coloniale della tradizione cattolica e protestante. Nelle mega-chiese i fedeli superano l’ambito angusto della comunità territoriale e scoprono che l’energia della massa alimenta una fede libera e individuale. Domina il leader:profeta e pastore, virtuoso dell’improvvisazione e manager di un Dio cui piace specchiarsi nel successo.
In fondo al viaggio, Massimo Rosati e Kristina Stoeckl ci mostrano le cinque anime di un Dio post-secolare protagonista delle modernità. La prima è quella di un Dio che èmoderno perché si mette in discussione, si reinventa, dialoga con la diversità; spreme dalla tradizione un approccio positivo e tollerante al mondo. Nella sua seconda anima, questo Dio abbraccia il secolare e il religioso: è fatto di entrambi. La terza anima è quella di un Dio che rifiuta di essere relegato nel privato e che sfida la concezione occidentale di uno Stato neutrale e di una sfera pubblica senza religione, dove un muro divide lo spazio del diritto da quello del sacro. La quarta è l’anima di un Dio plurale, colmo di differenza religiosa, aperto alle credenze indigene quanto a quelle immigrate, ostile al monopolio esclusivista di Chiese e fedi. Infine, la quinta anima del Dio post-secolare è quella della trascendenza, della proposta di uno sguardo che va oltre il mondo e perciò sa cambiarlo.
Questo Dio dalle cinque anime è in gran parte coerente con lo spirito della democrazia elaborato in Occidente, soprattutto nel crogiolo protestante. Tuttavia, sostiene il filosofo della politica Alessandro Ferrara, sul primato dei diritti e sul valore sociopolitico del conflitto e del dissenso, principi cardine della democrazia occidentale, la distanza è forte tra il Dio post-secolare globale e il progetto liberaldemocratico. È questa la sfida maggiore per l’Europa, in un mondo in cui, scrivono Rosati e Stoeckl, «il punto di vista religioso e quello secolare sono chiamati a vivere insieme e a vivere insieme nella diversità». Non dobbiamo più temere il vecchio Dio; non possiamo ancora fidarci del nuovo.
Di Marco Ventura, estratti dalla rivista "La Lettura ", n.52, inserto "Corriere Della Sera" 11 novembre 2012. Compilati, digitati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
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