12.15.2012

I SOLDATI PIANTATI DEL BRASILE

Henry Ford concessione nella valle del Rio Tapajós

In un suo saggio Hector Alimonda ricorda una vicenda pioneristica della trasformazione artificiale e pianificata di un ecosistema da parte della grande industria. Henry Ford ottenne in concessione dal governo brasiliano un milione di ettari nella valle del Rio Tapajós. La foresta amazzonica fu sostituita da una piantagione omogenea di alberi di caucciù, in grado di fornire la materia prima agli pneumatici delle sue automobili. La gestione dell’attività era di tipo monopolistico, i lavoratori sottoposti a rigide regole, alimentati, nel mito di Popeye, con spinaci in scatola spediti appositamente dagli Stati Uniti. A ribellarsi ci pensò per prima la natura, con la comparsa di un fungo che scompaginò i filari degli alberi. La rivolta si estese poi ai lavoratori, che al grido di: «Basta spinaci, vogliamo riso, fagioli e cachaça!» appiccarono il fuoco agli impianti di Fordlandia. Henry Ford comprese di aver perso la partita e restituì nel 1945 la concessione al governo brasiliano.

Idealmente quella protesta è stata ripresa, l’8 marzo del 2006, a Barra do Ribeiro, nello stato del Rio Grande do Sul, quando le donne di Via Campesina invasero una proprietà dell’Aracruz Celulose, per tagliare gli alberi di eucalipto, sostituendoli con sementi locali. Lo scopo era richiamare l’attenzione sui danni provocati dall’industria di cellulosa. Le più grandi estensioni di terra brasiliana in mano estera appartengono ad aziende di questo settore, attirate dal clima favorevole alla rapida crescita degli alberi. Azionista di Aracruz, accanto al capitale straniero, la Banca nazionale di sviluppo economico e sociale brasiliana sostiene tale attività, che gode di notevoli incentivi. Non a caso, nel 2003 fu uno dei primi comparti dell’industria a essere ricevuto dall’allora presidente Lula.

In nome della lotta contro il riscaldamento del pianeta e della riduzione di CO2, le più importanti organizzazioni mondiali hanno caldeggiato questa disseminazione di alberi artificiali, generatori in tanti paesi in via di sviluppo di disastri sociali e ambientali. Nello stato di Espírito Santo, il Movimento nazionale dei diritti umani ha bollato come “razzismo ambientale” l’esproprio delle terre e la violenza perpetrata sulle popolazioni degli Indios e degli afrodiscendenti Quilombolas. Del resto, l’introduzione invasiva di piantagioni di eucalipti originari dell’Australia, pini nordamericani e, in misura minore, acacie nere dall’Africa per produrre cellulosa sbiancata, destinata per il 97% all’esportazione, risale all’epoca delle dittature militari, sia in Brasile sia in Cile. Il concetto di foresta è assimilato spontaneamente alla natura e alla vita. Le multinazionali insistono molto sul concetto positivo di riforestazione. Nei loro enormi latifondi, debitamente cintati e inviolabili, i cartelli segnalano che si tratta di aree di preservazione ambientale. Poco importa dell’impiego tra i filari del glifosato, il famoso pesticida della Monsanto, e che la sottile distinzione tra alberi clonati e transgenici venga a cadere. Questi “soldati piantati”, come li chiamano i Mapuche del Cile, riferendosi alla loro aggressiva presenza, appaiono tutti identici, coi rami solo in vetta, per semplificare il taglio, e una fibra povera di lignina, adatta solo a questo settore merceologico. Uno dei danni più gravi arrecato dalla silvicoltura di eucalipto è dato dalla quantità di acqua assorbita. Una pianta di eucalipto ne consuma circa 30 litri al giorno, il 20% in più all’anno di quanto può assicurare la pioggia caduta dal cielo. Come risultato, il suolo diventa arido, i fiumi e le risorse idriche si prosciugano. È il cosiddetto deserto verde. Per il procuratore del Ministero pubblico federale, Domingo Silveiras: «Sembra una contraddizione che un albero possa fare male, ma è quello che succede con questo verde di morte».

La metà meridionale del Rio Grande do Sul forma, con l’Uruguay e quattro province dell’Argentina, il pampa, che in lingua quechua significa pianura. È uno dei sei biomi terrestri del Brasile, l’ultimo a essere stato riconosciuto. Una vegetazione bassa, ricchissima di leguminose e graminacee, la cui biodiversità è ancora tutta da scoprire. Lungo i fiumi si staglia la mata ciliare, la foresta vergine. La fauna annovera numerose specie endemiche, a rischio di estinzione. Un territorio diviso nel 2007 in aree d’influenza dalle imprese di cellulosa, spregiudicate nel creare imprese laranjas, brasiliane solo sulla carta, per superare ostacoli di legge.

Attualmente si calcola che non più del 40% del bioma del pampa si sia conservato. Questo ecosistema, fragile e bellissimo, regno dei gaúchos, che da cavallo controllano le loro mandrie, è in pericolo. E una delle minacce più serie deriva dalla “foresta che non vive”. Più di 400 000 ettari nel Rio Grande do Sul, un milione in Uruguay. A Encruzilhada do Sul, uno dei comuni dell’interno pampeano più accerchiato dal monocoltivo, un apicoltore spiega il mutamento occorso: «Nei monocoltivi c’è una differenza visibile a occhio nudo, dai primi tempi a ora. Perché prima erano pieni di rami, un tronco più grande dell’altro. Ora sono tutti alberi dritti, spogli, e crescono della stessa altezza. C’è una modificazione genetica nella pianta. Da quando l’eucalipto è stato clonato, se rimangono dentro il monocoltivo, le apimuoiono. È per questo motivo che gli agricoltori parlano di deserto verde». La grande promessa, che tuttora giustifica le coltivazioni, è lo sviluppo sostenibile, la creazione di posti di lavoro: «È ormai chiaro che l’eucalipto non ha portato niente di buono. Questa era una città piccola, tranquilla, piena di vita. Adesso c’è molta violenza, molti problemi, qui c’è stata una destrutturazione sociale molto grande. E lo stesso avviene con l’ambiente. Notiamo una differenza enorme nel comportamento delle api. Nei tre anni seguenti alle prime piantumazioni, durante l’inverno morirono la metà degli sciami. La società è disorientata, perduta. Quello che è avvenuto ha trasformato Encruzilhada. Non esiste impiego, il popolo fu espulso dall’entroterra.

La piccola proprietà non esiste più, le persone che abitavano nell’interno sono scappate tutte in città. Qui non c’è lavoro, la gioventù è senza prospettiva». È stato calcolato che la cellulosa genera un impiego ogni 185 ettari, mentre l’agricoltura familiare ne crea cinque ogni 10 (fonte Mst). Il gesto delle donne di Via Campesina di tagliare eucalipto per seminare le sementi locali indica un’alternativa possibile all’euca(li)pitale, come lo chiama il professore dell’Università di Pelotas, Althen Teixeira Filho. Mi è capitato di passare nel Pampa brasiliano davanti a una scuola rurale, sulla cui facciata era scritto: “Il futuro di tuo figlio passa da qui”. La scuola era chiusa, perché gli agricoltori avevano venduto la terra, ora accerchiata da piantagioni di eucalipto. Ma la resistenza di tanti altri agricoltori e il movimento ambientalista hanno per ora fermato, almeno nel Rio Grande do Sul, ulteriori progetti di espansione dell’industria di cellulosa.

Di Paolo Giardelli, estratti supplemento "Alimentazione " n.7., 2011, inserto "Il Manifesto", Roma. Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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