5.19.2016

ESSERE MADRE NELL'ANTICA ROMA


Nell'antica Roma tanti erano i motivi di preoccupazione per una donna che era sul punto di partorire: si chiedeva quale sarebbe stato il futuro di suo figlio, che poteva essere schiavo o libero, cittadino o straniero; se sarebbe sopravvissuta al parto; se avrebbe dovuto subire un taglio cesareo quasi certamente letale, o se il bimbo sarebbe stato posizionato correttamente al momento di uscire. Se anche il parto fosse andato nel migliore dei modi, la donna doveva sperare che il padre decidesse di riconoscere il bimbo e non lo abbandonasse, e che non optasse per l'infanticidio perché sospettava che la creatura fosse frutto di un adulterio. A quell'epoca, la vita di un neonato valeva ben poco, a meno che il bimbo non fosse l'erede legittimo, lungamente atteso, di un facoltoso proprietario, o che non rappresentasse una futura risorsa di manodopera per una modesta famiglia di umili origini.

La madre e il bimbo potevano trovarsi nelle situazioni più diverse: il figlio di una schiava diventava di proprietà del padrone di lei, e manteneva lo status di servo. A volte, gli schiavi formavano una coppia, ma non era loro consentito contrarre legalmente matrimonio. Il concubinato divenne per molti la forma di unione più frequente, mentre il matrimonio era prerogativa riservata ai cittadini romani, il loro strumento per avere eredi legittimi.

L'ideale di donna

Anche quando era sposato legalmente, un cittadino poteva mantenere una situazione di concubinato con qualche schiava, poiché esisteva una morale molto aperta riguardo ai comportamenti sessuali maschili, ma estremamente restrittiva nei confronti di ogni donna che avesse lo status di cittadina: il suo unico compito era generare figli nell'ambito del matrimonio e le era tolta ogni libertà d'iniziativa. Infatti, a lei era richiesto un ideale di pudicitia che prevedeva virtù, pudore, castità, fedeltà e obbedienza allo sposo; solo nel corso del I secolo a.C. questi valori andarono in crisi e la donna conquistò un po' di autonomia.

Durante il I secolo d.C., s'impose gradualmente una nuova morale, nella quale il matrimonio assunse le caratteristiche di un'unione duratura. Al di là del dovere civico di avere figli, si stabilì la fedeltà coniugale come regola del vincolo matrimoniale, elemento che poi divenne un cardine della morale cristiana.

Un compito tanto importante come generare figli rappresentava anche un'esperienza pericolosa, dolorosa e piena di incertezze per una romana. Il rischio per la madre, di qualunque condizione sociale, era sempre alto, in particolare al momento del parto, e la medicina dell'epoca non riuscì a ridurre l'elevato numero di morti tra le madri e i neonati.

Il concepimento

I Romani fissarono convenzionalmente ai dodici anni l'età min ima femminile per contrarre matrimonio. Quando si organizzavano unioni tra classi sociali elevate (a volte con molti anni d'anticipo, con una cerimonia di fidanzamento che prevedeva lo scambio dell'anello, testimoni e banchetto), occorreva aspettare che la bambina raggiungesse la pubertà prima delle nozze.

Appena raggiunta l'adolescenza, la fanciulla assumeva senza ulteriori attese la condizione di sposa, in modo da rendere effettivo il patto matrimoniale convenuto tra il padre di lei e lo sposo. In queste circostanze, restava poco margine per l'appagamento sessuale femminile, che non era tenuto in considerazione, anzi di fatto era considerato sconsigliabile. Il matrimonio era finalizzato alla procreazione e per tentare un concepimento bastava il desiderio sessuale del maschio, così come indicato dal medico greco Sorano di Efeso (prima metà del II secolo d.C.), autore del trattato di ginecologia Gynecia, rimasto il testo di riferimento per oltre un millennio, fino agli inizi del XVl secolo. L'atto sessuale doveva svilupparsi con cautela e, una volta avvenuto, la donna doveva stendersi sul letto, rilassarsi, tenere le gambe incrociate e riposare, mentre l'utero era in movimento per accogliere e far crescere il seme ricevuto.

A quei tempi non si conosceva con precisione il ciclo dell'ovulazione: si pensava che il momento migliore per rimanere incinta fossero i giorni successivi al ciclo mestruale, subito dopo che la donna aveva espulso la grande quantità di sangue che, secondo la convinzione dell'epoca, le era necessaria solo quando era in stato interessante.

Già all'epoca si impiegavano piante medicinali alle quali ancora oggi sono attribuite proprietà terapeutiche per i disturbi dell'utero. Si sapeva, per esempio, che l'aristolochia, un arbusto rampicante con fiori dai colori intensi, ha la funzione di regolare il flusso mestruale e di aiutare a espellere la placenta o il feto morto, e proprietà identiche erano attribuite alle radici dell'artemisia, alla maggiorana di Creta, alla camomilla, alla ruta e alla malva. Le stesse erbe medicinali, in quantità diverse, venivano assunte anche con finalità abortive.

La gravidanza e il parto

Tra le precauzioni per la fu tura madre, i trattatisti dell'epoca consigliavano passeggiate poco faticose, una dieta leggera e priva di salse, e alcuni alimenti: uova in camicia, passati a base di farina, pernici, quaglie, anatre selvatiche, piedini e orecchie di maiale, utero di scrofa, e in qualche caso gamberi o scampi. Si raccomandava di non avere rapporti sessuali e di non compiere movimenti violenti onde prevenire lacerazioni, e si consigliava di tenere il ventre legato e bendato, oltre a cospargersi di olio per prevenire le smagliature.

Per il buon esito del parto, era raccomandato l'aiuto di una levatrice esperta, vivace di spirito, appassionata nel lavoro, sensibile, robusta, discreta e, cosa più importante, con le dita lunghe e le unghie curate e ben tagliate, poiché doveva usarle all'interno della vagina della partoriente. Affinché il parto avesse un epilogo felice s'invocava la dea Giunone Lucina (uno degli epiteti della dea che aveva il compito di portare i bambini alla luce), dopo aver tolto alla partoriente ogni laccio o anello seguendo un preciso rituale simbolico.

Le levatrici, nei parti difficili, dovevano cercare di riposizionare il feto. La madre veniva sdraiata su un letto duro con la testa leggermente sollevata e la levatrice, introducendo la mano sinistra ben unguentata quando il collo dell'utero si dilatava, spingeva il feto verso l'interno e ne ruota va la testa o i piedi verso l'uscita. Dopo aver lubrificato la vagina con olio o cera, il bambino veniva estratto con grande cautela, per non lacerare l'utero.

Il neonato

Appena nato, s'invocava per il bambino la protezione della dea Levana, la protettrice dei neonati riconosciuti dal padre. Bisognava tagliare immediatamente il cordone ombelicale alla distanza di quattro dita dal corpo. Successivamente, la levatrice esaminava il neonato, verificandone le funzioni vitali, cercando eventuali malformazioni, liberando e controllando gli orifizi.

A seguire, veniva effettuata una lustralio, ovvero un rituale di purificazione e pulizia. Per prima cosa, si spruzzava sale finissimo, avendo cura che non finisse negli occhi o nella bocca del bimbo, poi si procedeva a !avario. Si rimuovevano le secrezioni, si massaggiava il corpo per eliminare il meconio (il materiale contenuto nell'intestino del feto), lo si ungeva con olio e, alla fine, lo si bendava completamente per ripararlo dal freddo e per evitare che il piccolo si graffiasse o ferisse gli occhi.

Ai maschietti ve nivano protetti i testicoli mediante un panno di lana, mentre nelle bambine si stringeva un po' di più la bendatura all'altezza del seno. In questo modo, con l'aspetto di una piccola mummia, il neonato veniva depositato per terra, di fronte a suo padre. Era il momento fondamentale: se lo raccoglieva, significava che lo riconosceva come figlio legittimo e che s'impegnava ad allevarlo e curarlo. el caso opposto, il bimbo veniva abbandonato (o esposto) presso la pubblica via, lasciato a un destino quanto mai incerto, di sicuro preoccupante.

Di Pedro Angel Fernandez Vega, estratti "Storica- National Geographic", n. 34, dicembre 2011, pp.22-25.  Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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