5.25.2016

GAMBERI E PADÙ IN CAMERUN



In Camerun, dove un fiume si tuffa nell’oceano saltando dalle rocce. E’ qui che si pesca il crostaceo, da cucinare nella foglia di banano.

Il villaggio, tutto il mondo ha diritto di pescare» mi ha detto Alain, dopo avermi venduto una trappola per gamberi fatta di liane tagliate e sapientemente intrecciate. Siamo a Kribi, sulla costa meridionale del Camerun, un villaggio affacciato sul golfo di Guinea. L’attività principale delle persone che vivono qui è la pesca. Si pescano gamberi di fiume e pesci di mare: carpe, sogliole e bar. Il fiume Lobè che sorge tra il Gabon e il Camerun, scorre a sud, fa qualche ansa e poi arriva qui, dove cade nell’oceano. Si dice che sia l’unico fiume ad avere delle cascate a ridosso di acque salate e non so dire se sia vero oppure no, certo è che è uno strano vedere un fiume tuffarsi nell’oceano saltando dalle rocce. È tra quelle rocce che la mattina presto, alle cinque circa, i gamberi si avvicinano e, attratti dalle esche, rimangono imprigionati.

Alain mi consiglia di segnarmi la migliore ricetta di queste parti: gamberi cucinati nelle foglie di banano. Si prendono i gamberi, si aprono, si toglie il carapace e le zampe, si lavano. A parte si prendono delle foglie di banano e si mettono sul fuoco finché sono morbide. Si dispone su ogni foglia di banano qualche gambero, sale, pepe e limone, si chiude la foglia, e dopo avere acceso il fuoco e fatto la brace, si colloca il pacchetto. È sufficiente mezz’ora perché il ripieno sia cotto. Deliziosi.

A Kribi tutti sanno pescare. Le donne sistemano le trappole per i gamberi a riva o sulle cascate del fiume Lobè. Gli uomini escono la mattina presto con le padù, le piroghe scavate su un unico tronco d’albero. Non esistono associazioni, cooperative, organizzazioni. Si va a pescare e basta. La mattina ci si incontra sulla spiaggia, qualcuno ha le reti, qualcun altro la barca, qualcuno offre il suo lavoro e si parte. Il giorno dopo quella stessa barca ospiterà altre persone. Alle otto ci si trova in spiaggia. La barca diventa bancone e si vende pesce. E arrivano le famiglie, i bambini, gente dal mercato centrale di Kribi, che compra il pesce per poi rivenderlo. I primi acquistano il pesce migliore e gli ultimi fanno gli affari.

Kribi è un piccolo paradiso di pescatori vicino alla Reserve do Campo, sulla costa sud del Camerun, una sosta rilassante, una località turistica conosciuta dai camerunensi per le spiagge, il pesce fresco, la pace e il relax. Insomma, la meta per caricarsi del viaggio che di lì a qualche giorno ci porterà nella foresta pluviale equatoriale. Le sette ore di strada che separano Kribi dalla capitale Yaoundé sono una scampagnata in confronto alle 16 ore che ci vogliono per raggiungere Zulabot. La capitale Yaoundé l’avevo raggiunta una settimana prima, per incontrare un professore di Pavia e tre studenti laureandi in farmacia. Volo diretto Parigi-Yaoundé, la mia prima volta in Camerun, la mia prima volta in Africa.

Gabriele Caccialanza, professore dell’ Università di Pavia, studia da anni le piante e la medicina tradizionale dei pigmei Baka. Giorgio e Luca dovevano raccogliere alcune piante e cortecce e studiarle in laboratorio al ritorno. Federico, invece, doveva confrontarsi con la medicina tradizionale dei pigmei, per scoprire quale confine si poteva misurare tra la magia dello sciamano, la medicina e le cure millenarie che il popolo della foresta utilizza ogni giorno. Scopo del viaggio raggiungere Zulabot, un piccolo villaggio nella foresta equatoriale, tra la riserva di Dja e la strada per il Congo. Pierre era il nostro contatto a Zulabot e Kribi la prima tappa del viaggio. Sedici ore su un vecchio pulmino scassato. A parte qualche ora sulle strade da Yaoundé a Mbalmayo, le piste di terra battuta che proseguono fino a Sangmélima e poi a Djoum sono davvero malconce e dilaniate dai camion che a ogni ora percorrono la strada carichi di legname. Piste di terra scavate dalle ruote, frullate dalle piogge stagionali, seccate dalla stagione estiva. Poi si sbaglia strada, si fanno soste, i posti di blocco, i pedaggi, si rimane impantanati, ma alla fine si arriva sempre.

Siamo arrivati a Djoum verso le nove di sera. Cena a base di maccarello affumicato, cipolla e manioca gommosa, collosa, con un lieve sentore di formaggio. Da bere, Castel e 33 Export, due birre camerunesi che vanno per la maggiore. A Zulabot vivono una ventina di famiglie di pigmei Baka e qualche Bantù. È un insediamento stanziale, tutto intorno c’è la foresta. Il villaggio vive della foresta: la corteccia di chinino per curare la malaria, altre piante per guarire ogni sorta di malanno, gli animali per cibarsi, i frutti, le foglie, ogni cosa. La comunità di Zulabot vive qua da generazioni, ci chiediamo per quale motivo questo gruppo si sia spinto ai margini della foresta invece che viverla dall’interno. Lo sciamano dice che se il suo villaggio è felice, non ha motivo di chiedersi perché l’intera comunità abbia fatto questa scelta, e noi, da profani, non abbiamo potuto che dargli ragione.

Siamo arrivati alle due di notte e il giorno successivo eravamo già nella foresta. Si passa dalla luce alla penombra in meno di un attimo, crescono l’umidità, gli odori, i profumi, il farfugliare delle scimmie. Bastano pochi minuti di cammino per essere avvolti da una flora fitta, una biodiversità che sorprende a ogni passo: alberi voluminosi, liane, spine, foglie piccole, grandi, enormi, ovunque. E inevitabilmente affiora un senso di smarrimento, che Alphonse, il figlio dello sciamano, scaccia velocemente. Perché i tronchi che abbiamo scavalcato sono segnati da un’incisione col machete nel verso del cammino. Perché una pianta dallo stelo sottile è piegata a metà e la linfa è ancora fresca. Siamo passati di qui poco fa.

Luca e Giorgio hanno raccolto foglie e cortecce di ogni tipo, io qualche frutto di corossol, un pezzetto di ghirba e una corteccia dal profumo di aglio che si usa come spezia.

Lungo la strada verso il villaggio incontriamo qualche pianta di manioca, sapa in linguaggio Baka, “il dono di Dio”. Fa parte dell’alimentazione quotidiana e delle preparazioni tradizionali locali. Sebbene non sia una pianta originaria di queste zone, è entrata a pieno titolo nell’universo degli ingredienti della cucina baka. Ho trascorso una settimana a occuparmi della cucina dei pigmei. Sono stato con le donne a farmi raccontare, con non poche difficoltà, le pietanze, gli ingredienti, le cotture. Certo, Pierre mi ha dato una mano, ma l’ostacolo della lingua alla fine è svanito. Il linguaggio della cucina è universale. E, una ricetta dopo l’altra, tutto diventa familiare. Le cotture a fuoco alto e a fuoco basso secondo il quantitativo di legna, l’utilizzo di condimenti e di spezie solo in determinate fasi di cottura, l’uso del mortaio per i semi e le foglie, la predominanza della cucina in umido per via delle carni non frollate e degli impasti farinosi a base di piante e di tuberi, come la manioca, ma anche l’isaba e il keke.

Si rimane estasiati dal modo con cui le radici di manioca sono sistemate nella pentola, dalla precisione nel taglio che si può avere con un machete di 60 centimetri... Antilope con banana pestata, pesce affumicato con salsa di arachidi, larve di palma con foglie di macabò, antilope con succo di noce di palma, una specie di grande ratto in umido con manioca lessa. E alla fine anche quel confine culturale che spesso ci impedisce di apprezzare cibi che non si conoscono cade. Tanto da apprezzare il sapore di un roditore cacciato e cucinato in umido da Nadine o il pollo “Dg”, il pollo del direttore generale, una ricetta camerunense, gustata qualche giorno prima a Yaoundé.

Non eravamo a Zulabot in vacanza e questo l’avevamo capito tutti. Eppure la quotidianità di un luogo che non ci appartiene, quell’intimo confronto umano fatto di opinioni e curiosità era il bagaglio che stavamo mettendo da parte per il ritorno. Altre 16 ore di viaggio. Ne sono bastate cinque per essere di nuovo fermi. Radiatore bucato, spia rossa, fumo sotto i sedili. L’ultima cosa che saremmo andati a pensare era che la polpa di un plantano, così zuppa di amido, colto e spalmato sul radiatore, ci avrebbe permesso di tornare a casa da quell’indimenticabile avventura con un’unica immagine: la meraviglia della foresta equatoriale.

Di Luca Govoni estratti "Scritto & Mangiato", supplemento "Il Manifesto", p. 10, Novembre 2012, Roma.  Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

No comments:

Post a Comment

Thanks for your comments...