5.26.2016

SOCRATE - ATENE PROCESSA EL FILOSOFO





Avrebbe potuto salvarsi, fuggire aiutato dai suoi discepoli. Socrate non lo fece perché mai si sarebbe messo contro le leggi della sua Città. Ed era proprio la sua Cità ad accusarlo: la democratica Atene aveva paura di quel'uomo non tanto perché aveva "inventato" la filosofia, quanto perché si era intromesso nelle regole della democrazia.

La porta si spalancò all'improvviso. L'ospite si fermò, barcollando, sull'uscio. Era ubriaco, incoronato d'edera, e una flautista lo sorreggeva. essuno lo aveva invitato. Ma, sfrontato come sempre, Alcibiade si era presentato egualmente nella casa in cui il drammaturgo Agatone festeggiava una sua vittoria poetica. Era una festa tra amici, un ritrovo di aristocratici raffinati che, bevendo il miglior vino, avevano trascorso alcune ore dialogando sul tema di eros. Ormai era tardi, gli ospiti stavano per rincasare. Ma chi avrebbe sbattuto la porta in faccia ad Alcibiade, il leader politico più carismatico e più affascinante del suo tempo?

Alcibiade, però, rimase stupito e confuso quando scoprì che, tra gli altri invitati, c'era anche Socrate. Si conoscevano da tempo: quindici anni prima, proteggendolo col suo scudo, Socrate gli aveva salvato la vita da un contrattacco nemico duran te l'assedio alla colonia corinzia di Potidea, nel nord della Grecia. Socrate era il suo maestro, era l'uomo che amava ed era anche l'unico che sapesse merterlo a disagio. Lo confessa Alcibiade stesso ai convitati: "Se non fosse che potreste credermi ubriaco perso, vi direi l'effetto che mi fanno i discorsi di quest'uomo. Quando l'ascolto, il cuore mi balza in petto, e le lacrime mi sgorgano dagli occhi. Perché mi costringe ad ammettere che io manco di mille cose ma, invece di pensare a me, vado impicciandomi della politica di Atene. È l'unica persona di fronte alla quale ho provato vergogna, io che ignoro il senso della vergogna".

Prologo del processo

Siamo ad Atene, nel 416 a.C. Questa scena è narrata da un altro grande discepolo di Socrate, Platone, nel suo dialogo "Il Simposio". Ma quando Platone scrisse effettivamente il dialogo, alcuni decenni più tardi, i protagonisti della festa a casa di Agatone erano tutti morti. Alcibiade era stato assassinato a 46 anni, nel 404 a.C., spirando tra le braccia di una delle tante donne che lo avevano amato, l'etera Timandra. S'ignora ancora oggi chi sia stato il mandante dell'omicidio. Si sa solo che alcuni sicari lo trafissero con una pioggia di frecce mentre era in esilio in Frigia, ospite del Gran Re di Persia. Cinque anni dopo, nel 399, in carcere, era morto anche Socrate. Costretto a bere la cicuta, dopo il processo in cui era stato condannato a morte da un tribunale ateniese sulla base di due capi d'accusa: empietà e corruzione dei giovani. Aveva settant'anni. In virtù di quella condanna, e anche grazie ai dialoghi in cui Platone ha immortalato la sua figura, Socrate è passato alla storia come il martire per eccellenza della filosofia, il campione del libero pensiero, vittima innocente dell'intolleranza. La filosofa Hannah Arendt, nel 1956, definirà il processo a Socrate il momento aurorale "del conflitto tra politica e filosofia". Ma le cose sono più semplici e più complicate al tempo stesso. Forse la vera chiave della morte di Socrate sta proprio in quella festa a casa di Agatone, in quel ritrovo di "happy few", di aristocratici raffinati. Perché il processo a Socrate fu anche, e soprattutto, un processo politico.

L'Atene di Socrate

Socrate nasce nel 469, da un padre scultore, Sofronisco, e da una madre levatrice, Fenarete. Serve con onore la sua patria tra gli opliti, cioè nella fanteria pesante. Ma la sua vocazione non è quella del soldato. In un' Atene che, sotto il governo di Pericle, cresce in grandezza e splendore, mentre architetti e operai innalzano le colonne del Partenone, Socrate si dedica al mestiere di filosofo. Anzi, più precisamente, lo inventa. Non è un'invenzione indolore. I dialoghi che Socrate in trattiene con gli Ateniesi non sono confronti tra gentlemen: anzi, come racconta il biografo Diogene Laerzio, i suoi interlocutori spesso "lo pigliavano a pugni e gli strappavano i capelli".

Erano, del resto, anni drammatici. non è un caso che Platone ambienti il suo dialogo proprio nel 416 a.C. Subito dopo, infatti, si rompe una svolta radicale e tumultuosa nella storia di Atene. La città era entrata in guerra nel 431 a.C. contro la sua rivale Sparta. Nel 421 a.C. era stata stipulata una tregua. Alcibiade, sebbene di famiglia nobilissima, si presentava allora come il leader della fazione democratica estrema, impaziente di riprendere le armi per ridare fiato all'imperialismo ateniese. In una drammatica seduta dell'assemblea, Alcibiade fece votare una spedizione militare contro la Sicilia. Quella spedizione si sarebbe risolta nel più grande disastro militare della storia ateniese. Ma Alcibiade allora non lo sapeva. Né sapeva che a quella spedizione lui non avrebbe mai preso parte. Nel 415, infatti, mentre le triremi ateniesi si preparavano a salpare per la Sicilia, Alcibiade fu coinvolto in uno scandalo che lo costrinse a fuggire dalla polis, prima a Sparta e poi in Persia. Anche in questo caso, come sarà per Socrate, questioni religiose facevano velo allo scontro politico: si disse che Alcibiade aveva organizzato in casa sua una parodia dei venerabili Misteri di Eleusi; lo si accusò di avere partecipato al danneggiamento dei busti del dio Ermes (le Erme, poste ai crocevia delle strade principali), mutilate tutte in una sola notte del novembre 415, in quella che si supponeva essere la prova generale di una congiura oligarchica contro al democrazia. L'esilio di Alcibiade e la sconfitta in Sicilia misero in crisi Atene. Le consorterie oligarchiche riuscirono per qualche tempo a commissariare le istituzioni democratiche sottoponendole al controllo di organismi ristretti. La guerra contro Sparta si riaccese. A un certo punto, nel caos generale, lo stesso Alcibiade fu richiamato a furor di popolo come salvatore della patria. Ma la situazione era ormai compromessa. Mentre Alcibiade riprendeva la via dell'esilio, le truppe spartane stringevano Atene in una morsa sempre più stretta. La flotta, ultima risorsa degli Ateniesi, riuscì a ottenere un'estrema, inattesa vittoria alle isole Arginuse, oggi Isole Alibey, nello stretto di mare tra Lesbo e l'odierna Turchia. Ma il tribunale eli Atene decise incredibilmente  di condannare a morte gli ammiragli vincitori, con l'accusa di non avere salvato i marinai naufraghi. Un'accusa avanzata per compiacere demagogicamente il popolo (i marinai appartenevano agli strati sociali più bassi). Uno dei pochi che si oppose coraggiosamente alla condanna, sostenuta istericamente da larga parte dell'opinione pubblica, fu proprio Socrate.

E in quel momento, probabilmente, il filosofo aggiunse un altro gradino alla scala che lo avrebbe condotto alla morte. Atene non aveva più speranze. Nel 404 a.C. gli partani entrarono in città ponendo fine a un conflitto quasi trentennale. lnsediarono un governo fantoccio, i cosiddetti Trenta Tiranni. Lo guidava un altro aristocratico anticonformista e spregiudicato, raffinatissimo poeta e autore di tragedie. Si chiamava Crizia ed era anche lui un discepolo di Socrate, cosa che gli Ateniesi non avranno mancato di notare. Il governo di Crizia cadde dopo pochi mesi, nel 403, travolto dalla sua stessa crudeltà e dalla pressione dei fuoriusciti. Gli esuli tornarono in città, la democrazia fu ristabilita. Fu decretata un'amnistia, la prima del suo genere, che garantì l'impunità per i delitti consumati durante la guerra civile.

Ma, nell'aria, rimase un certo fastidio per chi era ormai visto come il cattivo maestro di tanti leader senza scrupoli che avevano imperversato, con criminale spregiudicatezza, negli ultimi anni. Socrate, senz'altro, se ne rendeva conto. Già nel 424 Aristofane (che pure doveva essere suo amico, visto che Platone fa partecipare anche lui alla festa narrata ne "Il Simposio") lo aveva rappresentato, nella commedia "Le Nuvole", come un grottesco ciarlatano che misura i piedi delle pulci e sta seduto in un cestino sospeso a mezz'aria per scrutare più da vicino la volta celeste. n finale, sinistro, della commedia inscena un grande incendio in cui Socrate e i suoi discepoli muoiono bruciati.

I capi d'accusa

Il processo, che si svolse nel 399 a.C., fu dunque solo l'esito di una lunga sfida tra Socrate e Atene. L'accusa fu presentata da tre persone: Anito, Meleto e l'oratore Licone. Di questi tre personaggi, conosciamo un poco Anito: sappiamo che era un leader moderato del partito democratico, che aveva partecipato alla resistenza contro i Trenta Tiranni ed era stato tra i promotori dell'amnistia del 403.

Il capo d'accusa, così come ci viene riferito da un altro discepolo di Socrate, lo scrittore Senofonte (un oligarca oltranzisra, nemico sfegarato della democrazia) e da Diogene Laerzio fu il seguente: " Socrate è colpevole di non credere agli dei in cui crede la città (polis) e di introdurre altre e nuove divinità. Inoltre, è colpevole di corrompere i giovani. Pena richiesta: la morte". Si tratta, quindi, di due capi d'accusa distinti. Il primo fa riferimento a un reato introdotto di recente ad Atene, il crimine di 'asebeia', che generalmente si traduce con 'empietà', ma che ha uno spettro di significati più ampio: indica infatti, in generale, la mancanza di rispetto verso le norme e le tradizioni, non solo strettamente religiose, in cui la città si riconosce. La seconda accusa era fin troppo trasparente. Quei giovani che Socrate aveva 'corrotto' erano gli Alcibiade e i Crizia. Senofonte, altro giovane 'corrotto', dice che gli accusatori rimproveravano esplicitamente a Socrate di avere educato ai tempo stesso "il più sfrenato, il più arrogante e il più violento tra quanti militavano dalla parte della democrazia" (Alcibiade) e "il più ladro e il più sanguinario tra gli oligarchi" (Crizia). Il processo si svolse nell'Agorà di Atene, durò un solo giorno, in turco dieci ore.

La difesa del filosofo

La strategia della difesa ci è nota, oltre che da Senofonte, dalla celebre "Apologia di Socrate" di Platone. L'imputato sfidò direttamente i suoi accusatori negando ogni addebito. Disse di avere sempre rispettato gli dei della città e tenne a distinguersi dai suoi scriteriari discepoli. Ricordò alla corte il suo duro contrasto con Crizia: quando il tiranno gli aveva ordinato di arrestare un oppositore politico, il generale Leone di Salamina, egli si era rifiutato, andandosene a casa ad aspettare l'inevitabile punizione. "E sarei morto senz'altro" disse Socrate "se il governo dei Trenta Tiranni non fosse caduto poco dopo". Il tentativo di scindere le proprie responsabilità da Crizia non diventa tuttavia adesione all'ortodossia democratica: anzi, quando si rivolge ai giudici, Socrate usa espressioni come "il vostro partito popolare", sottintendendo che lui milita comunque su un altro fronte.

La corte che giudicava il filosofo era un tribunale popolare formato da 501 persone estratte a sorte da una lista di 6000. Il sorteggio era uno dei cardini del sistema democratico ateniese nella formazione non solo delle corri giudiziarie, ma anche di tutti gli organi di governo. Ebbene, nella situazione in cui si trova, Socrate decide di mettersi a contestare proprio il meccanismo del sorteggio: perché, argomenta, dovremmo scegliere per sorteggio un governante quando invece non scegliamo per sorteggio,ma econdo la loro bravura, un flautista o un architetto, professioni assai meno importanti di quella di governante? Que ti attacchi frontali alla logica della democrazia ateniese non potevano che irritare la giuria. Questa infatti, come testimoniano Platone e Senofonte, reagì all'autodifesa di Socrate con ripetuti chiamazzi. Più di una volta la strategia difensiva di Socrate fu provocatoria, qua i irridente. La prassi giudiziaria ateniese prevedeva che ci fosse prima una sentenza di condanna e poi una sentenza ulteriore in cui si definiva la pena. L'imputato aveva diritto di parola prima di entrambe le sentenze. La condanna arrivò. Era scontata e anzi Socrate si mostrò sorpreso che così tanti avessero votato in suo favo re. Su 501 giurati, infatti, ben 220 si erano pronunciati per l'assoluzione: "Bastava che trenta persone cambiassero opinione e sarei stato assolto". A questo punto, comunque, si doveva deliberare sulla pena. "La mia pena?" disse dunque Socrate nella sua seconda arringa "Ebbene, io, per rutta la vita, ho cercato di insegnare a ciascun uomo a essere veramente virtuoso e sapiente. Dovreste quindi darmi un premio come benefattore della città. Propongo quindi che per me si deliberi il mantenimento a vira nel Pritaneo". Nel Pritaneo, la sede della Presidenza del Consiglio (Boulé), venivano nutriti, a spese della città, i cittadini benemeriti, come, per esempio, i vincitori dei Giochi Olimpici. Socrate, dunque, sfida ancora una volta la giuria. Solo per l'insistenza dei suoi discepoli, cede a più miù consigli e si dichiara infine disponibile a pagare una multa cospicua, trenta mine, che i discepoli stessi, Platone in testa, avrebbero raccolto con una colletta. Ma ormai la pazienza dei giurati è al colmo: secondo la richiesta dell'accusa, Socrate viene condannato a morte.

La condanna a morte

Avrebbe potuto fuggire, e probabilmente rutti si aspertavano che lo facesse. Era prassi non rara che un condannato a morte prendesse la via dell'esilio prima dell'esecuzione. Anche i suoi accusatori si sarebbero accontentati. I discepoli avevano già organizzato l'evasione, ma Socrate, racconta Platone, decise di restare in carcere. La legge della città, disse, andava rispettata, anche se ingiusta. Fu questa scelta a decretare il suo trionfo postumo e a far nascere la sua leggenda. Restano ancora molti punti oscuri. Le stesse ricostruzioni di Platone e Senofonte divergono in più punti. Probabilmente esplose, nel processo del 399, una miscela di rancori e risentimenti che presto si disinnescò da sola. Uno storico insigne, Moses Finley, ha fatto notare come Platone, che era ancora più ferocemente antidemocratico del suo maestro ed era anche parente di Crizia, sia rimasto poi ad Atene indisturbato aprendo una sua scuola di filosofia. Di certo, nel caso di Socrate, non era in questione quel conflitto ideale tra politica e filosofia vagheggiato da Hannah Arendt, sulla scia di grandi personalità come Voltaire o John Stuart Mill. Dietro il processo a Socrate c'era piuttosto l'asprezza sanguinosa della lotta politica ad Atene sul finire del V secolo a.C. E, forse, quei ritrovi elitari tra aristocratici sprezzanti della democrazia e delle sue regole, come il simposio a casa di Agatone, hanno pesaro più di qualsiasi speculazione filosofica.

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SOCRATE E LE DONNE

Santippe, la moglie di Socrate, è nell"immaginario collettivo un esempio di donna dura di carattere. Forse questa sua immagine deriva dal messaggio che Socrate stesso ha voluto tramandarci, dando, per primo, un duro colpo alla misoginia del suo tempo. Egli infatti sosteneva che la donna non risultava inferiore per una questione biologica, ma se mai a causa dell'educazione che le veniva impartita. Una moglie invece di crescere pensando che il suo dovere fosse solo procreare, avrebbe dovuto più semplicemente badare di essere una buona compagna di vita con cui dialogare. Santippe era bisbetica, ma Socrate nel 'Simposio' di Senofonte la difende dicendo che per divenire buoni cavalterizzi è necessario esercitarsi con i cavalli più focosi e non con i più docili. Ricordiamo, inoltre, che egli diceva di avere imparato dalla madre levatrice l'arte della maieutica e dall'etera Aspasia, sua contemporanea, la tecnica del discorso.


Di Giorgio Ieranò, estratti "Civiltà" Milano, anno III, numero 24, giugno 2012, pp.32-43.  Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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