Birra: un pane da bere
Birra e pane, nel mondo antico, condividono un identico percorso, e non solo perché prodotti entrambi da cereali mescolati con acqua e con aggiunta di lieviti: in un affresco che adornava la tomba di Kenamun, gran ciambellano del faraone Amenophis II (circa 1500 a.C.), vediamo operai all’opera mentre impastano grossi pani.
È questa una delle operazioni finali nel processo di fabbricazione della birra, allorquando il “pane”, ottenuto impastando l’orzo (precedentemente frantumato poi bagnato fino alla sua germinazione) con lieviti, viene Infornato, successivamente messo in un mastello con acqua, fatto nuovamente bollire, ottenendo dall’acqua di decantazione la bevanda. “Pane di malto” lo chiama Zosimo da Panopoli, letterato alessandrino della prima metà del IV secolo d.C. cui si deve una descrizione molto accurata delle varie fasi di fabbricazione della birra. “Bappir”, pane d’orzo, canta l’inno, composto intorno al 1800 a.C. in onore di Ninkasi, la dea sumera preposta alla fermentazione dell’orzo, “uomo del pane” era chiamato in Egitto il birraio. Ancora nel Medioevo la birra era detta “pane liquido”.
Non è improbabile che, come per tante invenzioni, essa fosse nata per caso da un pezzo di pane zuppo che la fermentazione trasformò in bevanda.
Dall’Asia alla conquista del mondo
Due sono le bevande che hanno segnato la storia, la società, la cultura del mondo antico: birra e vino. Di origini antichissime (tra 4000 e 3000 a.C.), entrambe affondano le proprie radici nell’area mesopotamica, ma, delle due, la più diffusa e popolare fu la birra.
Il suo cammino alla conquista del mondo mosse dal continente asiatico lungo due direttrici. La prima grande strada fu quella che passò per il Medio Oriente, toccò l’Egitto che ne divenne fortissimo consumatore, penetrò in Etiopia ove veniva preparata anche dal miglio, per giungere fino alle sorgenti del Nilo ove, ancor oggi, alcune tribù preparano, da questo cereale, una bevanda inebriante del tutto simile alla birra come era fabbricata nell’antico Egitto.
La seconda grande direttrice fu quella che mosse verso il Nord Europa. Lo testimoniano i ritrovamenti archeologici in Danimarca di una bevanda preparata dalla fermentazione di cereali e risalente al periodo in cui la birra si era affermata in area mediorientale. Nel suo lungo viaggio di conquista che la porterà in Britannia, Gallia, Penisola Iberica, la birra attraversò l’Armenia del Nord ove, racconta Senofonte, essa veniva consumata, alla maniera dei Sumeri, mediante lunghe canne e direttamente da grandi otri su cui galleggiavano residui di cereali. In Dalmazia essa era chiamata “sabaja” dall’antico nome tracio-frigio del dio Dioniso, Sabos o Sabazio. Ancora nel 448 d.C., agli ambasciatori greci recatisi in delegazione presso Attila, in Pannonia, furono offerti idromele e una birra di miglio, chiamata “camon”, che essi giudicarono una stranezza adatta a barbari. Un’area di consumo, dunque, vastissima, di gran lunga superiore rispetto a quella viticola, limitata alle civiltà del Mediterraneo, Grecia e Roma, che si spiega con la semplicità, rispetto alla fabbricazione del vino e alla coltivazione della vite, delle tecniche di produzione, per le quali bastavano acqua e cereali e che ne consentivano la produzione anche a livello domestico. Nel mondo sumerico, un elemento fondamentale della dote della futura sposa erano proprio gli strumenti necessari per la sua preparazione: calderone, mestolo e una lunga canna. E non solo: rispetto all’uva, la cui conservazione era limitata nel tempo, di conseguenza la trasformazione in vino doveva essere fatta all’indomani della raccolta dei frutti, la birra aveva il vantaggio di una disponibilità di materia prima che poteva coprire periodi lunghissimi dopo la raccolta.
Vino vs birra
“Il vino profuma di nettare, la birra puzza di caprone”
Due sono le civiltà del bere che si confrontano nel mondo antico: quella del vino e quella della birra. Ma il mondo greco e latino, pur premuto da Sud e da Nord dall’impetuosa affermazione della birra, restò sostanzialmente estraneo e diffidente rispetto a quello che in Grecia e Roma veniva chiamato comunemente “vino d’orzo”. Le parole dell’epigramma dell’imperatore Giuliano (332-363), che aveva vissuto in Gallia dal 355 al 361 e quindi ne conosceva l’uso, diffusosi anche tra le legioni romane, ben riflettono l’atteggiamento dei greci e dei romani nei confronti di una bevanda che essi giudicavano barbara. La letteratura medica greca non risparmiò condanne alla birra, responsabile di infiniti guai, anche se alcuni medici latini, invece, la usarono proprio come medicinale: si narra che Antonio Musa, medico personale di Augusto, l’avesse prescritta all’imperatore come difesa contro le infezioni biliari. Ma se, nella conquista del mondo allora conosciuto, i Romani portarono le loro leggi, costruirono ponti e strade, essi non riuscirono a sostituire nella pratica comune, il vino alla birra. È vero che, con la conquista della Gallia Narbonense, i metodi della viticoltura romana iniziarono a diffondersi anche nel Nord Europa. Qui le élite locali, per uniformarsi al modello del popolo conquistatore, abbandonarono ben presto la birra per il vino (si racconta che giungessero a scambiare uno schiavo per un otre di vino) del quale, a detta delle fonti latine, furono spesso vittime per la loro incapacità di autocontrollo. È vero che nell’Egitto della XIX dinastia (1295 a.C.-1188 a.C.) il vino era diventato un prodotto popolare e ancor più in epoca romana, ma il suo consumo rimase, per i costi, esclusivo della corte e delle élite: la più vasta platea dei potenziali consumatori nel vasto impero non poteva certo permettersi una bevanda tanto costosa, e restò perciò fedele alla tradizionale, economica, birra, così semplice da preparare. Di questo fu consapevole l’imperatore Diocleziano quando, nel suo editto sui prezzi del 301 d.C., stabilì che la birra dovesse costare la metà rispetto al prezzo del vino di qualità ordinaria, il vino cosiddetto “rustico”.
La bevanda degli dei: i miti delle origini
La nascita della birra, bevanda che si rivelò preziosissima per il suo valore energetico nella dieta degli antichi popoli dell’Egitto e della Mezzaluna fertile, si accompagnò in entrambe le aree, ad una ricca elaborazione mitologica. Mentre presso i Greci i miti fondativi del vino avevano come protagonista il dio Dioniso e, presso i Romani, Giove ne era il nume tutelare, la birra in Egitto e Mesopotamia fu prevalentemente associata a divinità femminili: Ninkasi era per i Sumeri la divinità preposta alla fermentazione dell’orzo. La dea egizia Nepreiet presiedeva alla preparazione domestica della birra che la padrona di casa, cui era affidato il compito della sua fabbricazione, offriva agli dei perché proteggessero la casa e chi l’abitava. Era una dea, l’egizia Menget che patrocinava la bevanda e coloro che la preparavano. In Grecia, narra il mito che Demetra, scesa fra gli uomini per cercare la figlia Kore, giunse ad Eleusi e, accolta dai sovrani del luogo, diede vita ad un rito da compiersi annualmente, che prevedeva l’uso di una bevanda, il “ciceone”, di orzo e acqua che potrebbe far pensare ad una sorta di birra di carattere rituale. Volto di donna aveva dunque la birra in area mesopotamica ed egizia: la sua preparazione domestica era del resto affidata a mani femminili. Erano prevalentemente le donne che, nel mondo sumerico, gestivano le taverne di mescita e consumazione della bevanda. Le favorite dell’harem del re di Babilonia, Assurbanipal, ricevevano ogni giorno quasi un litro di birra ciascuna. Alle donne d’Oriente era dunque possibile il pieno accesso alla bevanda; su di essa non pesava il divieto che il mondo latino, e soprattutto greco, imponeva al consumo del vino da parte delle donne. Certo il contenuto alcolico della birra era basso, e tanto più basso quanto più la sua preparazione domestica era forzatamente semplificata.
Si sa che la civiltà della birra non fu immune dalla piaga dell’ubriachezza, ma essa riguardò soprattutto i ricchi che potevano permettersi birre preparate con procedimenti più accurati e più lunghi che garantivano un contenuto alcolico più elevato.
Le armate assiro-babilonesi erano accompagnate, durante le campagne militari, da maestri birrai che giornalmente preparavano la birra per la truppa. Ma, una lettera di un ispettore reale indirizzata ad Assurbanipal lamentava che, presso alcuni ufficiali, il consumo eccessivo li rendeva inadatti al loro compito.
Ma sono soprattutto le leggende ad illuminarci sul ruolo e l’importanza che quegli antichi popoli attribuirono alla birra. Nell’epopea di Gilgamesh si narra che Enkidu, che diventerà il fedele amico dell’eroe protagonista, era in principio creatura selvaggia, primitiva, ferina, che “non sapeva nutrirsi”. Sarà una prostituta sacra che, dallo stato di natura, lo inizierà al suo compito tra gli uomini, proprio facendogli conoscere i piaceri della birra. «Egli bevve della se-barbi-sag (…) e il suo spirito si sciolse (...) Si lavò il corpo peloso con acqua, si unse e divenne uomo».
Una leggenda egizia racconta come Ra, il dio sole, creatore del mondo e degli uomini, per impedire che la dea Hator distruggesse il genere umano, fece fabbricare sette otri di birra rossa, nella quale la dea si immerse ebbra e dimentica della sua vendetta. In entrambe le leggende è iscritta tutta l’importanza che quei popoli assegnavano ad una bevanda percepita come capace di elevare il grado di civiltà se non addirittura come fondatrice di civiltà: la birra in effetti, fu elemento centrale nella alimentazione e nella vita di quei popoli. Per il suo valore energetico e altamente proteico diede un apporto importante ad una dieta povera, apporto indispensabile per affrontare la dura battaglia contro la natura. Non solo, ma il suo contenuto, se pur blandamente alcolico, costituiva una barriera contro parassiti e impurità presenti nell’acqua dei fiumi e dei pozzi.
Egitto e Mesopotamia: fabbricazione, commercio e consumo
La più antica testimonianza della presenza della birra in Egitto compare negli affreschi della piramide di Sakkara alla fine del IV millennio a.C.: essi ci dicono che il defunto, nell’aldilà, aveva bisogno di birra per spegnere la sua sete. In un papiro conservato al museo del Cairo, è detto che, alla corte di Tebe, alla fine dell’Impero di Mezzo (circa 1800 a.C.), venivano consegnate giornalmente 130 brocche di birra di cui cinque al giorno erano destinate alla Regina. Bevanda dunque dei sovrani, delle regine, ma anche di dei e degli operai che lavoravano alla costruzione dei complessi monumentali.
Per costoro la birra era una voce importante del salario. Persino gli schiavi ne avevano la loro razione giornaliera di due boccali. Essa era indicata con nomi diversi a seconda di coloro cui era destinata, fossero essi re, divinità o gente del popolo.
Gli scrittori greci di fronte a tanta varietà di denominazione scelsero di chiamarla semplicemente “vino d’orzo” o “zythos”. Di come veniva preparata sappiamo qualcosa da un trattato che il letterato alessandrino Zosimo di Panopoli, della prima metà de IV secolo d.C. dedicò alle varie fasi di fabbricazione a partire dalla preparazione del pane d’orzo.
Poiché ancora non si conosceva il luppolo, la conservazione della bevanda era molto limitata ma Egiziani e Sumeri si industriarono fin da subito di arricchirla con aggiunta di erbe aromatiche, sesamo, datteri, miele, zafferano e spezie che ne rendessero meno asprigno il sapore. Ma la birra piaceva anche amara, nel qual caso si aggiungeva una infusione di lupini che aveva il vantaggio di rendere meno deperibile il prodotto.
Una curiosa ricetta che riporta ingredienti e proporzioni dello “zythos” egiziano, si trova nel Talmud: un terzo di orzo, un terzo di zafferano e un terzo di sale.
Certo è che la birra del Faraone, del dignitario, o del ricco, era molto differente rispetto a quella che bevevano contadini e operai, le cui mogli la preparavano in un angolo dell’unico ambiente della casa, giorno per giorno, con procedimenti sommari.
Alla corte del faraone, in cui un ruolo importante era assegnato al “sommelier” della birra, e nelle abitazioni dei ricchi, c’erano veri e propri luoghi di fabbricazione, con impiego di numerosi operai nonché locali per lo stoccaggio. Ciò che veniva filtrato era una birra di alta qualità, variamente aromatizzata, e con un tasso alcolico più elevato. Ma di vere e proprie imprese per la fabbricazione della birra abbiamo testimonianza in età tolemaica, allorquando venne imposta una tassa sulla sua vendita.
Sappiamo di un imprenditore di nome “Pasion e Sentheus”, che pagava l’1% su un fatturato di trecento chili di moneta di rame. L’altissimo consumo garantiva così allo Stato un importante introito tant’è che anche sotto la dominazione romana la tassa fu mantenuta.
Unici esenti erano i santuari di culto ove la birra era una voce importante nelle offerte rituali agli dei.
I sovrani tolemaici vollero pertanto muoversi all’interno della tradizione, ed esentarono quindi i templi dal pagamento.
Esistevano anche taverne, o case della birra, ove si serviva la bevanda, ma erano luoghi malfamati di ubriaconi e di prostitute.
I Sumeri e gli Assiro-Babilonesi
Le testimonianze più antiche del consumo di birra in area mesopotamica risalgono ai Sumeri, civiltà che ha consegnato la propria storia, le sue leggende e la sua amministrazione a migliaia di tavolette in cuneiforme e che perdurò dal 2900 fino alla conquista semitica attorno al 2050 a.C. Come in Egitto, esistevano diverse varietà di birra distinte in base al colore che poteva variare dal biondo allo scuro, a seconda del grado di tostatura del “pane d’orzo”. Essa era, come in Egitto, bevanda popolare e democratica: bevanda di eroi, Gilgamesh “il bevitore di birra”, e di re. Era una voce importante nelle offerte sacrificali agli dei, sia nei templi che nelle abitazioni private. Era mercede per operai, funzionari, sacerdoti, soldati e ufficiali. A seconda del rango, il quantitativo variava: tanto più elevato quanto più si saliva nella scala sociale. I sacerdoti erano coloro cui spettavano più boccali. Tale era l’importanza attribuita dai Sumeri alla bevanda che il termine che definiva l’atto del bere, coincideva con la parola stessa che indicava la birra: “se-bar-si-bag-“. Anche il famosissimo codice di Hammurabi si preoccupò di regolamentarne prezzi e produzione. Ai paragrafi detti della Tavernaria si vietava all’ostessa di far pagare la bevanda ad un prezzo inferiore a quello dell’orzo, pena il comparire a giudizio ed essere gettata nell’acqua. Qui si apre l’interessante capitolo delle taverne. Gestite prevalentemente da donne già in epoca sumerica, esse erano luoghi di fabbricazione e di consumo della birra. Soggette a rigidi controlli sui prezzi per impedire processi inflattivi dell’orzo, con il tempo divennero, come le “case della birra” egizie, luoghi malfamati, di prostituzione, dove l’esercizio dell’ostessa si confondeva con quello della tenutaria. Ma erano anche luoghi di possibili complotti che la padrona doveva denunciare alle autorità sotto pena della morte. Data la sua centralità nella vita di quei popoli, le si attribuivano poteri medicamentosi: mescolata con erbe, era impiegata nella cura anche dei bambini, peraltro avvezzi al suo consumo fin da piccoli. Le principesse dell’Harem, come cura di bellezza, si immergevano in vasche d’alabastro piene di birra chiara. Le stesse forse dove il re babilonese Nabuccodonosor si racconta facesse annegare le amanti di cui si era stancato.
Cervisia, Cervesia: Gallia e Spagna
Narra Polibio di come un re degli Iberi, amante dello sfarzo, volendo imitare la magnificenza dell’omerico re dei Feaci, tenesse al centro della reggia, recipienti d’oro e d’argento colmi di “vino d’orzo”.
Era questa l’espressione più frequentemente usata dagli scrittori antichi per indicare la birra.
In Spagna e in Gallia, invece, esistevano altri termini per designarla: “Celia, cerea” nella Penisola Iberica, e “Cervesia, Cervisia” in Gallia, erano parole accomunate dalla stessa radice indogermanica, e che le fonti romane usavano per parlare della bevanda nazionale di quelle regioni. Delle due, quella che avrà una più lunga storia è “cervesia”: ritroviamo tale denominazione in Plinio che dedicò molti passi alla bevanda, a detta sua impiegata anche per cure cosmetiche, come compare nell’Editto dei prezzi di Diocleziano.
Ancora nel 1500 era questo il termine con cui, nei testi letterari di area germanica, si indicava la bevanda. Il solo che, tra le innumerevoli denominazioni che ci ha consegnato il mondo antico, ancora sopravvive nello spagnolo “cerveza” e nel francese “cervoise”.
In Gallia, nonostante l’avanzare della cultura vinicola, essa rimase bevanda nazionale per eccellenza la cui pratica di conservazione in botti di legno passerà ai dominatori romani che la useranno per il vino. La “Cervisia” era a base d’orzo, di color rosso/brunastro non mielata ma addolcita con aromi. La sua preparazione era prevalentemente casalinga.
Con il tempo, consumo e fabbricazione non furono più solo domestici: l’iscrizione su un vaso di età romana “cervesariis feliciter”, “viva i birrai” suggerisce l’esistenza di corporazioni di birrai.
Non mancavano, sempre in età romana, le taverne di mescita della bevanda, gestite da donne; se crediamo a quanto è iscritto su un recipiente a forma anulare conservato a Parigi al Museo Carnavalet: «ostessa riempi la brocca di “cervesa”», cui segue, sul verso, la risposta della donna: «tu habes, est repleta», «tu l’hai, è piena».
Se gli autori antichi rimproveravano ai Galli la loro intemperanza nei confronti delle bevande inebrianti, Cesare e Tacito guardarono viceversa con ammirazione alle tribù germaniche, al loro stile di vita virile e sobrio, alieno da effeminatezze, al loro rifiuto di aver contatti con il commercio di vino.
Né Cesare né Plinio però accennano al consumo di birra presso questi popoli. Ne parla Tacito nella sua opera “Germania”, il che fa supporre che essa sia comparsa più tardi sulle tavole delle tribù germaniche.
Ma furono il Centro e il Nord Europa, non le sponde del Mediterraneo meridionale, che svilupparono le tecniche di produzione della bevanda che hanno creato, nel corso dei secoli, quel panorama opulento di varietà che noi oggi conosciamo.
Naturalmente, come nel mondo antico, la creazione di bevande euforizzanti si è accompagnata ad una fioritura di miti e di leggende nonché di divinità protettrici. Anche la birra avrà la sua epopea proprio nei Paesi dell’Europa centro-settentrionale fino alla Finlandia, come attesta la grande saga popolare, il “Kalevala”.
Chi è Gambrinus?
Tra i santi protettori che ogni Paese si è dato, dal Belgio all’Alsazia, dalla Germania all’Inghilterra, il patrono senz’altro più famoso è Gambrinus. Protettore della birra, il suo mito nacque nel tredicesimo secolo e la sua fama guadagnò tutta l’Europa.
Quale fosse la sua identità è oggetto di discussione: per taluni studiosi si tratta di Jan Primus duca di Brabante, ucciso in un torneo perché vittima di un boccale di birra bevuto prima del combattimento, secondo il libro di un medico comparso a Colmar nel 1593; per altri di Giovanni senza Paura, duca di Borgogna, che introdusse il luppolo nella preparazione della bevanda e che creò l’ordine del Luppolo; per altri ancora non si tratterebbe di un personaggio storico: il suo nome sarebbe quello di almeno una dozzina di re Germanici.
Ma ciò che è interessante è che Gambrinus, a differenza dei santi protettori è “re” e “laico”, raffigurato ancora fino al XIX secolo con tanto di corona, faccia rubizza e gioviale, la vera incarnazione della piacevolezza del bere.
La birra nel Medioevo: monasteri, donne e corporazioni
Bevanda nata praticamente con l’uomo e destinata a seguirlo pervicacemente lungo tutto il suo percorso, ogni epoca storica è stata una tappa importane per la messa a punto e il miglioramento della tecnica di produzione della birra nonché della sua cultura. Produrre birra e pane in casa era consuetudine nell’economia domestica medievale, anche perché, quando il cibo scarseggiava, la birra, prodotto di cereali, poteva esserne un valido sostituto; anche per questo, nelle regioni del Centro e Nord Europa, era uso che nella dote della sposa fosse compreso tutto l’armamentario per fare birra; insomma, la birra è stata essenzialmente una questione di donne, tradizionalmente dedite all’economia domestica, e lo è ancora. Presso i Dogon del Mali ad esempio, oggi, la produzione spetta esclusivamente alla componente femminile della tribù. In un’economia povera di scambi, come quella medievale, si capisce come l’autoproduzione giocasse un ruolo centrale e oltretutto la produzione della birra all’interno delle mura domestiche si spiega con il fatto che essa, bevanda alimento, è ricca di vitamine e proteine, quindi particolarmente preziosa in un’epoca di scarsità e di frequenti carestie. Nel monastero, attività come questa e come anche il far vino (questo però nelle zone del Sud Europa) divennero presto fonte di profitto ed espressione di quella commistione tipica tra spiritualità e mondanità caratteristica di tale fase storica. Il monastero di epoca medievale, infatti, era un’istituzione profondamente inserita nel tessuto sociale, culturale e produttivo del suo intorno, un’istituzione ben diversa da quella che conosciamo e immaginiamo noi oggi, dove, invece, la preghiera e l’intima vicinanza a Dio regnano su tutto. Il motto che scandiva qui le attività stando alla regola di san Benedetto, era “ora et labora”, cioè “prega e lavora”, tanto che possiamo tranquillamente considerare i monasteri medievali delle aziende ante litteram. Ed essendo anche centri di formazione, di cultura e di ricerca, le tecniche di fabbricazione della birra avevano tutto il tempo per poter essere studiate e messe a punto, per questo qui si produssero presto delle ottime birre che venivano utilizzate non solo ad uso interno, ma anche per rifocillare i viandanti e quindi vendute a chi ne desiderasse. È ancora nei monasteri che venne introdotta un’importante novità e cioè l’uso del luppolo come aromatizzante e anche come conservante. I monaci erano dediti alla raccolta e allo studio delle erbe, e quindi grandi studiosi delle stesse, erbari che qualche monastero tedesco ancora oggi attivo nella produzione di birra, rende disponibile e visitabile al suo pubblico. La birra, alimento in forma liquida, inoltre poteva essere consumata anche durante i periodi di digiuno. Un detto tedesco recitava infatti «il liquido non interrompe il digiuno» (ben diverso dai divieti del Ramadan che escludono che si possa bere anche solo un goccio d’acqua in periodo di digiuno) e Santa Ildegarda di Bingen, vissuta intorno all’anno Mille, nel suo scritto “causa et cura” consigliava spesso la birra come rimedio, specie ai cuori afflitti da malinconie e tristezze. Con il venir meno delle condizioni che avevano permesso l’affermarsi dell’economia medievale e delle sue istituzioni, di cui i monasteri rappresentavano un importante tassello, anche la produzione della birra smise di essere appannaggio esclusivo di questi luoghi, per diventare frutto dell’operosità di singoli privati cittadini. L’economia medievale, che era imperniata sulla campagna, lasciò lentamente il posto alle città dove si costituirono presto confraternite di birrai che si occuparono di fissare delle norme e proteggere la produzione e il commercio della bevanda tanto da intervenire con divieti sul possibile smercio di birra non di provenienza locale.
Oggi, dell’attività dei monasteri-birrifici sopravvivono ancora alcuni esempi gloriosi tra Belgio, Olanda e Germania. In Baviera, la regione tedesca di più antica e diffusa tradizione brassicola alcuni di questi monasteri come ad esempio il Kloster Ettal, in alta Baviera, ma anche il Kloster Andechs, sono dei gioiellini barocchi ancora attivi nella produzione di birra che meritano una visita.
La rivoluzione industriale: la birra decolla
Sviluppo delle tecniche di fermentazione e introduzione del processo di pastorizzazione ad alta temperatura (Pasteur, Etudes sur la Bière, 1876), invenzione della macchina per tostare il malto di Daniel Wheeler (1817), messa a punto del raffreddatore del mosto di Jean Louis Baudelot (1859), impiego, anche nell’industria della birra, della macchina a vapore, con conseguente automatizzazione di parte della lavorazione (Anton Dreher 1841), il primo frigorifero di Caffè & Linde (1876) che, finalmente, consentì di mantenere la birra alla temperatura di 4-10° C, ottimo per la produzione della birra tipo Lager: la seconda rivoluzione industriale, oltre a modificare le condizioni della produzione in tutta Europa, rappresentò un avanzamento notevole anche per l’industria birraia che ebbe a disposizione strumenti più sofisticati per il controllo e la standardizzazione della produzione.
Gli studi di Pasteur sui lieviti fecero dunque da apripista al micologo danese Emil Christian Hansen, che isolò una cellula pura di lievito, così da quel momento il lievito poteva essere ottenuto in laboratorio e quindi riprodotto ad uso e consumo dell’industria.
L’invenzione del ghiaccio industriale ad opera dell’ingegnere Ferdinand Carrè rappresentò un ulteriore passo avanti per ottenere una birra stabile e di qualità costante.
Fino a quel momento la birra veniva lasciata raffreddare in grandi vasche con del ghiaccio raccolto durante l’inverno e quindi la sua produzione si legava indiscutibilmente e per forza di clima a precisi momenti dell’anno, ora invece poteva essere destagionalizzata; si capisce come, a questo punto, la produzione di birra a livello famigliare non aveva più ragion d’essere.
Considerato, però, che l’acquisto di tanta tecnologia implicava l’impiego e l’immobilizzazione di altrettanti capitali, i birrai si videro costretti ad unire le forze; è così che dal 1900 cominciano a comparire grandi gruppi industriali mentre spariva nel contempo la produzione locale. Che d’altro canto, diciamolo, sta vivendo oggi una seconda primavera.
È comunque con il Novecento che comincia la storia dell’industria birraia che oggi vede poche grandi multinazionali che dominano un mercato sempre più globalizzato.
Oggi l’Unione Europea è una delle principali aree mondiali di produzione della birra.
Nel 2011 i circa 4000 stabilimenti produttivi presenti in tutta Europa hanno prodotto oltre 380 milioni di ettolitri di birra distribuiti poi in tutto il mondo.
In termini di volume l’UE è un soggetto di primo piano, con oltre un quarto della produzione mondiale, superato solo recentemente dalla Cina, ma tuttora più forte di Stati Uniti, Russia, Brasile e Messico.
Quattro leader mondiali del settore come Carlsberg, AB Inbev, SAB Miller e Heineken hanno sede proprio nell’Unione Europea.
Produzione delle prime birre industriali
Come è nata la birra a bassa fermentazione?
La prima Pils, birra a bassa fermentazione che fu successo mondiale, è frutto di fortuna, occasioni e ingegno birraio che lo sviluppo dell’industria fece quindi decollare.
Per questo possiamo considerarla la prima birra di massa alla conquista di ogni latitudine del globo.
A darle i natali fu un mastro birraio bavarese, Josef Groll, che dalla cittadinanza di Pilsen, allora in Boemia (ora nella Repubblica Ceca), ebbe l’onorevole incarico di mettere in piedi la fabbrica municipale di birra. Fino ad allora, i produttori locali si erano scontrati con le notevoli difficoltà di produrre ad alta fermentazione una birra che doveva essere gradevole ed anche conservabile. Capitava, infatti, che dovessero buttarne via diverse botti prima di ottenere un prodotto commestibile e commerciabile.
Il birrificio municipale doveva servire a mettere a punto un processo produttivo che ovviasse a tutte queste difficoltà.
I mastri birrai bavaresi godevano allora di ottima fama e
proprio qui si stava mettendo a punto il processo della produzione a bassa fermentazione.
A Pilsen, Groll applicò il principio della bassa fermentazione utilizzando la dolce acqua locale, un malto chiaro al posto del malto scuro in uso fino ad allora ed un luppolo aromatico speciale e tipico di quella zona, che divenne un vero e proprio stile di birra. Era nata la birra Pils, che tutt’oggi, se proveniente dalla cittadina ceca, viene venduta come Pilsner Urquell, cioè Pilsen dalla fonte originaria (perché prodotta con acqua di fonte del territorio).
Con lo sviluppo delle tecniche di refrigerazione che permisero di tenere sotto controllo la fermentazione, che la Pils esige bassa, e la conservazione del prodotto, la bionda delicatamente amara poté essere apprezzata dappertutto e il suo successo fu mondiale.
Pils non è sinonimo di Lager
Oggi con il nome di Pils si intende una birra dall’ aroma caratteristico e inconfondibile, una birra chiara, dai sentori di luppolo e vagamente amarognola.
La Pils appartiene alla famiglia delle Lager, ma non è una Lager perché il termine Lager serve a classificare in modo generico birre anche molto diverse tra loro. In Germania, con il termine Lager, si indicavano tradizionalmente tutte le birre che dovevano essere conservate per qualche mese al freddo, in cantine o cave sotto blocchi di ghiaccio, per permettere ai lieviti, amanti del freddo, di lavorare per bene, di fare maturare il prodotto prima di essere immesse sul mercato (Lager significa infatti magazzino o centro di raccolta); e allora è chiaro che, classificate come Lager, si trovino birre accumunate unicamente dal solo fatto di essere prodotte a bassa fermentazione.
Due, infatti, sono le grandi famiglie di birre che occorre conoscere prima di perdersi nel mare magnum di tipi e sottotipi, stili e invenzioni: birre prodotte con lieviti che amano il freddo, diciamo temperature intorno ai 10 °C e birre prodotte con lieviti che amano temperature decisamente più calde, intorno ai 20 °C. A questa grande ripartizione occorre dunque aggiungere le birre a fermentazione spontanea, birre cioè che cominciano a fermentare solo grazie ai lieviti presenti naturalmente nell’aria, che, in realtà, sono prerogativa di una sola regione del mondo, la vallata attorno a Bruxelles.
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Possiamo affermare che la fabbricazione della birra risale all’antichità più remota.
Ciò vuol dire che una bevanda alcolica qualsiasi è necessaria a mantenere la vita e la salute dell’uomo.
Nelle varie parti del mondo, in ogni tempo, i popoli, inciviliti o selvaggi, hanno fatto dei vini di frutta.
Nei Paesi ove la vite cresce rigogliosa e l’uva matura bene, si fa il vino. Nei Paesi ove abbondano i meli si sostituisce il vino con il sidro.
In altri Paesi, le bevande a base di palma, di banana, di canna da zucchero, di betulla, di miele, ecc., si utilizzano per ottenere i liquori alcolici che servono a rianimare le forze dell’uomo e a variare la sua alimentazione.
I popoli che mancano di frutta, come i Tartari, fanno un liquore alcolico con il latte delle giumente.
Finalmente, nei Paesi ove abbondano i cereali, la mente industriosa dell’uomo ha immaginato l’operazione che consiste nel fare una bevanda alcolica con i semi dei cereali fatti germogliare artificialmente, che poi sono stritolati, trattati con l’acqua e sottoposti alla fermentazione per ottenere la bevanda che viene chiamata “birra”.
Di Giuseppe Vaccarini, estratti "Il Manuale della Birra", Editore Ulrico Hoepli, Milano, 2015 pp.10-32. Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
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