10.25.2016

LA MODA - UN MEDIOEVO DA SFILATA


Se all'inizio dovevano essere soprattutto pratici, con il tempo gli abiti divennero una maniera per dichiarare il proprio status sociale e la propria ricchezza. Tra ostentazione e richiami alla modestia, ecco come si è evoluto l'abbigliamento di quest'epoca.

Pochi abiti e semplici per le classi popolari, più elaborati ma non troppo per i ceti più abbienti. Vestirsi nel Medioevo rimase a lungo non tanto una questione di stile quanto di praticità, con capi sovrapposti che potevano essere tolti o messi secondo necessità, in ragione del tempo e delle esigenze della vita quotidiana. Esclusi i ceti nobiliari, fino al Mille l'uomo e la donna medievali si vestivano, non si agghindavano, lontana anni luce la necessità di apparire, da cui discende nei tempi moderni la compulsiva corsa a differenziare foggia e colore dell'abito per mostrare gusto e ricchezza di chi lo porta. Un secolo dopo, con l'ascesa di quella che poi diventerà la classe borghese, l'abito comincia a fare il monaco, cioè a parlare in società di colui che lo indossa, raccontandone in particolare il successo economico. Allora, e solo allora, diventa uno status con l'obiettivo dichiarato di imitare il più possibile l'inarrivabile sfarzo delle corti dove, a tavola come nel guardaroba, era tutto un rutilare di ricercatezze tra stoffe, colori e sete preziose. Così dalla frugai ità dei primi secoli si arriva all'eccesso - dal trucco agli ornamenti - tanto da spingere le autorità a porre un freno e richiamare a una più consona morigeratezza grazie alla quale fosse ancora possibile distinguere i ceti d'appartenenza. Senza contare i fiumi di parole spesi da moralisti e predicatori: fatica inutile, come avrebbe dimostrato di lì a poco il Rinascimento.

Nella quasi totale assenza di tessuti conservatisi - salvo rari casi tardi, e per l'alto Medioevo le torbiere del Nord Europa, dove sono stati portati alla luce tessuti e resti di persone sacrificate ancora abbigliate - la fonte più diretta che testimonia tipologia e qualità degli abiti è l'iconografia: dipinti, sculture, miniature, monete. Ma sono raffigurazioni da considerare con estrema cautela in quanto spesso più che ritrarre con fedeltà un soggetto erano concepite per rappresentarne lo status e aderivano quindi a cliché prestabiliti. Esistono poi inventari, cronache, testamenti, ma la maggior parte sono documenti relativi ai secoli più recenti. Ciò nonostante, è possibile stabilire ugualmente a grandi linee i modelli di riferimento e tracciare una "storia della moda medievale", senza dimenticare l'esistenza (e l'importanza) delle varianti locali.

Praticità, innanzitutto

Si può quindi dire che l'abbigliamento ordinario nei primi secoli del Medioevo era caratterizzato da una grande semplicim e strutturato in base al principio delle sovrapposizioni. Ci si vestiva, cioè, per strati, in tal modo garantendo la possibil im di difendersi, dal freddo o dal caldo con la massima praticità. In genere si utilizzavano capi ereditati dal mondo antico. Le tuniche erano retaggio di quello classico - più corte quelle romane, più lunghe le bizantine - mentre i calzoni (le bracae) erano di derivazione celtico-germanica ed erano state mutuate da vestimenti analoghi in uso presso le popolazioni delle steppe con cui i barbari vennero a contatto. Questo abbigliamento era tipico di popoli abituati a passare gran parte del tempo all'aperto, spesso in condizioni climatiche difficili, e quindi improntato alla comodità. Il capo d'abbigliamento "base" maschile era la casacca lunga fino al ginocchio, sonnontata da un'altra più corta con le maniche, più o meno decorata con passamanerie a motivi geometrici realizzate con la tessitura a tavolette. Tali bordure potevano essere, per personaggi eminenti, anche in oro. Per proteggersi dal freddo, ecco gilet di pelle o pelliccia senza maniche, oppure ampi mantelli fermati da fibule (spille). Le gambe erano coperte da brache di lino e fasce di tessuto awolte intorno agli arti oppure da pezze in feltro o lana grezza, il tutto fermato da lacci di cuoio. Ai piedi si calzavano stivaletti alle caviglie assicurati per mezzo di lacci e stringhe, mentre i meno abbienti si accontentavano di semplici zoccoli di legno o calzari bassi. Mancando le tasche, appesa alla cintura c'era una scarsella che conteneva l'acciarino, la pietra focaia e altri oggetti di uso quotidiano. L'abbigliamento femminile aveva anch'esso come base un'ampia tunica, lunga alla caviglia, sormontata da un'altra tunica o da una mantellina aperta sul davanti e fennata sul petto con l'ausilio eli fibule eli vari tipi e dimensioni. La vita era stretta da una cintura di cuoio, come per gli uomini dotata di scarsella. Gli ornamenti tipici, che variavano per foggia e lusso a seconda della ricchezza, erano orecchini, spilloni per capelli, bracciali e collane di pasta vitrea. La testa delle donne sposate era coperta da un velo di lino, mentre le nubili viaggiavano a capo scoperto e con i capelli lunghi: pare venissero ritualmente tagliati quando la giovane era data in sposa.

Nasce la moda 

Tali fogge furono in voga fino al ìvlille circa, quando le mutate e più favorevoli condizioni socio-economiche che portarono alla ripresa dei traffici commerciali, a un maggior benessere e alla nascita e ascesa di nuovi ceti obbligarono a un "ripensamento" anche degli abiti, che cambiarono e si arricchirono. Nel XII secolo iniziarono a comparire elementi decorativi - maniche pendenti, calze a punta, strascichi - a tinte vivaci che allungavano la figura e distinguevano nettamente i due sessi. Dalla prima metà del Trecento si sfruttò molto l'aderenza per mettere in risalto le forme del corpo. Via libera, per le giovani e le donne della società medio-alta, a scollature strizzate in ampie gonne a pieghe che, strette appena sotto il seno da una fascia, esaltavano la morbida rotondità del ventre alludendo alla fertilità. Viceversa gli uomini puntavano sulla prestanza fisica con farsetti aderenti sul petto e sulle spalle, corti alla cintola, e sotto indossavano brache attillate - quasi delle moderne calzamaglie - con coperture a livello del pube, facendo maliziosamente intuire (magari aumentandoli ad arte con protesi di cuoio!) i "contorni" della loro virilità. Diffuse erano poi anche le calzature a punta, che ammiccavano alla grandezza del membro virile. Sempre dal Due-Trecento in poi si assiste anche al trionfo delle stoffe preziose e colorate, amate dai nobili ma anche dalla borghesia in ascesa: una pretesa soddisfatta dalla vivacità dei commerci e dalla crescente abilità dei tintori. Fino al Mille il sistema pre,ralente ruotò intorno a tre tinte: il bianco, il nero e il rosso, colori primitivi che esprimono rispettivamente i concetti ancestrali di luce, tenebre e fuoco/sangue. Ma dal nuovo millennio in poi altre nuance si aggiunsero alle esistenti aumentando le combinazioni e ampliando i ventagli di significato. Quanto ai materiali, il cuoio fu usato sempre da tutti i ceti per calzature e accessori perché pratico, facilmente reperibile e a buon mercato. Le pelli - soprattutto quelle da rivestimento e da guarnizione come martora, zibellino, scoiattolo - erano riservate solo ai più facoltosi, mentre il popolo utilizzava pelli più modeste ricavate da animali domestici o cacciagione come agnelli e capretti, conigli, faine, volpi e persino gatti. Il materiale più diffuso era la lana - protettiva d'inverno e isolante d'estate - seguita dal lino e da altre fibre naturali come il fustagno, ricavato dal cotone. Con la ripresa dei commerci e dei contatti con l'Oriente, però, per i benestanti divenne un "must" la seta: nel Tre e Quattrocento, le scarpe e le borse alla moda erano di questo materiale, così come gli abiti, in una sorta di "gam" a chi ostentava di più.

Un freno agli eccessi 

Così nel Duecento, e spesso su spinta della Chiesa, le autorità cittadine dovettero emanare una serie di disposizioni, le cosiddette "leggi suntuarie", atte a frenare gli eccessi che potenzialmente potevano portare anche a disordini sociali. Poco importa se in alcuni casi, come a Reggio Emilia (1242), le stesse disposizioni facevano obbligo ai ricchi di avere almeno un abito a colori "pro honore et utilitate comunis Regii", ossia per garantire il prestigio del Comune stesso. Così gli Statuti di Bologna proibirono di indossare, sia in casa sia fuori, orecchini di perle e pendenti, veri o falsi, mentre quelli di Modena (1327) di indossare strascichi. Sempre a Bologna c'erano ufficiali incaricati di procedere ai controlli: la domenica si fennavano davanti alle chiese per cogliere in flagrante donne e uomini che pprofittavano della Messa per sfoggiare le mise più sontuose. Li descrive bene la storica Maria Giuseppina Muzzarelli: "Fermavano le persone, leggevano loro la lista delle proibizioni, tanto per rinfrescare le idee a chi ignorava o fingeva di ignorare le restrizioni, per poi chiedere se avevano qualcosa o qualcuno da denunciare.

Una domenica di maggio dell'anno 1300 nei pressi della chiesa bolognese di San Francesco vennero escussi [esaminati, ndr] alcuni testimoni che, interrogati circa il rispetto delle norme suntuarie richiamate alla loro memoria con una lettura dei capitoli, dissero regolarmente tutti di non sapere niente. Di domenica in domenica da maggio a ottobre vennero reiterate le interrogazioni di decine di persone, sempre uomini, e tutti dissero di non sapere assolutamente niente. Sicuramente le trasgressioni c'erano, ma sembra di capire che non ci fosse un grande interesse a denunciarle. Forse le cose cambiarono un po' quando si stabilì di destinare una quota della multa a chi denunciava".

Alle prescrizioni non sfuggivano nemmeno i morti: ancora a Bologna nel 1376 si vietò di vestire i defunti di rosso scarlatto o comunque di abiti che valessero più di 30 soldi. Non tutte le leggi suntuarie, però, erano restrittive. Quelle milanesi, emanate in due riprese a cent'anni di distanza (1396 e 1498), apparivano volutamente piuttosto blande: una volta ottemperato l'obbligo di salvaguardare almeno sulla carta la moralità pubblica, le autorità meneghine non avevano alcuna intenzione di limitare un settore - quello della produzione e del commercio di abiti e accessori- che era tra i più vitali dell'economia cittadina. C'era anche chi negava ogni ostentazione e anzi faceva dell'aspetto trasandato la cifra più autentica del proprio essere.

Erano coloro che - come i monaci - avevano rinunciato alle lusinghe del mondo prendendo i voti (tra cui quello di povertà), oppure gli eremiti. L'abito monastico era costituito per tutti da un saio lungo alla caviglia, stretto in vita da una cintura di corda e corredato da mantello con cappuccio. A cambiare era solo il colore, che definiva l'ordine di appartenenza: nero per i benedettini, bianco per i cistercensi, marrone naturale per i francescani, bianco e nero per i domenicani. Ben diverso, invece, l 'abbigliamento dei membri del clero e degli alti prelati, che anzi nella ricchezza e nello sfarzo dell'abito esaltavano non già la loro persona ma ... la gloria divina.

Naturalmente, l'abbigliamento r icercato, lussuoso e "licenzioso" non lasciava indifferenti i moralisti e gli ecclesiastici. Il celebre predicatore Bernardino da Siena (1380-1444), per esempio, scagliava strali contro le bizzarre forme delle acconciature femminili e le cosiddette "pianelle", zeppe alte fino a 50 centimetri usate per aumentare la statura: non solo alteravano le proporzioni del corpo e mettevano eccessivamente in mostra chi le indossava, ma sprecavano tessuto per gli abiti (che dovevano essere più lunghi). Dal canto suo, Dante rimbrottava le "sfacciate donne fiorentine" dei suoi tempi che andavano "mostrando con le poppe il petto" (Purgatorio, Canto XXIII, vv. 101-102), rimpiangendo nel contempo la pudica modestia della mogli e di Bellincion Berti, che incedeva dietro lui "sanza ' l viso dipinto" (Paradiso, Canto XV, 114). E il francescano Jacopone da Todi (1233-1306) scriveva addirittura un'intera landa (la VIII: De l'ornamento delle donne dannoso) paragonando le femmine che falsificano il loro aspetto con belletti e tinture al basi l iseo, la mitica creatura che si riteneva potesse uccidere con il solo sguardo. Tutto questo, però, era opulenza cittadina. Nelle campagne, e per chi faceva lavori manuali, l'abbigliamento continuò a restare sempre lo stesso, ossia il "classico" completo "tunica corta e pantaloni" con sopra un grembiule tuttofare: semplice, economico e soprattutto (almeno in alcune zone d'Europa) rispettoso delle leggi. Anche nel Medioevo l'attenzione all'estetica era soprattutto una cosa da ricchi.


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CAPELLI, BAFFI E BARBA

La foggia della capigliatura e l'uso o meno della barba e dei baffi variava a seconda del tempo e dei luoghi in maniera consistente. Se i barbari amavano le chiome fluenti (cosa confermata, nel Nord Europa, dai ritrovamenti di individui sacrificati e gettati nelle torbiere, che conservano capelli ancora folti e morbidi) i Romani, viceversa, erano per capelli corti e barba rasata: solo alcuni imperatori un po' eccentrici (come Giuliano l'Apostata) o "filosofi" (come Adriano e Marco Aurelio) non si radevano. I Germani (e i loro discendenti medievali) consideravano le chiome attributo di virilità, forza e soprattutto libertà: i servi e gli schiavi. in fatti, avevano i capelli corti. Per le donne, invece, i capelli lunghi erano sempre sinonimo di bellezza e fertilità. Alla chioma (e alla barba) era legata una complessa simbologia. I re merovingi (che governarono il regno franco tra il V e l'VIlI secolo, prima dell'avvento dei Pipinidi) si autodefinivano reges criniti, re capelluti, facendo dipendere il loro stesso status di sovrani dal fatto di portare le chiome lunghe. Lo storico bizantino Agazia (532-582 circa) sostiene che non venissero mai rasati sin dall'infanzia, e che viceversa ai loro sudditi era imposto di tenerle corte a rimarcare la differenza.

Dopo la fine della dinastia e l'avvento al potere dei Pipinidi e poi dei Carolingi, si impose viceversa l'uso dei ca pelli corti, che ebbe come principale alleato la Chiesa. Le ragioni erano di ordine morale: accusati di favorire l'omosessualità e creare confusione tra i sessi (parole del monaco Guglielmo di Malmesbury), i capelli lunghi furono banditi dal concilio di Rouen del 1096. Per i chierici era obbligatoria la tonsura, che variava a seconda dei contesti. Tuttavia tali prescrizioni non furono osservate sempre da tutti. Eremiti, asceti e monaci rigoristi portavano la barba lunga, così come i pellegrini. l re invece preferivano seguire il modello degli antichi romani e sbarbarsi. ln controtendenza l'imperatore Federico Barbarossa (1122-1190) adottò la barba partecipando alla terza crociata e proibì per legge di tirare o strappare i capelli e i peli. Anni dopo, i lombardi l'avrebbero preso di mira coniando sprezzantemente proprio il soprannome di Barbarossa, che alludeva a Nerone, alias Lucio Domizio Enobarbo (in latino Aenobarbus vuol dire barba di rame). La sua sinistra fama e la rarità del pigmento donarono a tutti i "pel di carota" il sospetto di crudeltà, tradimento e vicinanza al demonio.

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IL CODICE COLORE

Ottenere t inte per tessuti brillanti e durevoli non era facile e richiedeva una procedura complessa e costosa anche per via delle materie prime impiegate. Il blu nelle sue vaste gamme, per esempio, era ottenuto dal guado, una pianta di origine orientale (Isatis tinctoria) la cui produzione fu estesa in Toscana, in Emilia e nell'area piemontese-lombarda per abbattere i costi di importazione. Le foglie triturate erano poi essiccate e imballate. Prima di essere utilizzate (insieme ai fissanti in un bagno dove si immergevano i panni da tingere) dovevano subire una serie di trattamenti: il costo dell'operazione era direttamente proporzionale all'intensità della tinta desiderata.

Oltre a corrispondere a ideali di estetica e gusto, i colori avevano una precisa funzione simbolica. Per la cultura imperante erano associati a vizi e peccat i capitali: il verde alla vanità, il giallo all'invidia, il bianco all'ignavia, il nero alla collera e all'avarizia, il rosso all'orgoglio e alla lussuria. Il loro utilizzo quindi era molto oculato perché indossare un capo di una tinta o di un'altra equivaleva a comunicare il proprio ruolo nella società e altre informazioni "sensibili". Il giallo, per esempio, era spesso riservato ad alcune categorie e poco utilizzato (salvo la tinta brillante, amata dai nobili e sostituita dell'oro in campo liturgico) dagli altri.

Papa Innocenzo IlI al Concilio Lateranense del 1215 decretò nel canone 68 che ebrei e musulmani dovessero indossare vestiti o colori particolari in modo da renderli riconoscibili al resto della comunità "qualitate habitus" (per il tipo di abito):agli ebrei fu imposto di portare ora un copricapo, ora un contrassegno giallo, considerato colore dell'infamia e del tradimento: il più delle volte si trattava di un cerchio, mentre la tristemente famosa stella di questo colore fece la sua comparsa per la prima volta a Verona nel 1433. 1l giallo era in certi casi obbligatorio anche per le prostitute, che in questo modo erano distinte dal resto delle donne" rispettabili". Contrassegni gialli erano cuciti anche sulle vestidi certe categorie di malati come i lebbrosi, in modo da individuarli subito e contenere il pericolo di contagio. Le tinte più diffuse e apprezzate erano il rosso, il verde e, dal XII-XIII secolo in poi, il blu: quest'ultimo, fino ad allora collegato ai "barbari", dal Duecento in poi fu sdoganato dal progressivo attecchire del culto mariano (la Madonna aveva il manto azzurro) e divenne sinonimo di regalità e nobiltà in concorrenza con il classico rosso.

Va notato che il termine "scarlatto" in origine significava semplicemente "puro" esi applicava a tutti i colori : solo con il tempo si è imposto come sinonimo del rosso per antonomasia. Il nero invece - in genere associato al lutto - si affermò come colore di prestigio e distintivo per alcune professioni come i giudici, i notai, gli uomini di legge. A Venezia era utilizzato dalla nobiltà, dai medici e dagli avvocati, ma anche sui parament i delle feste. Ma non si trattava di un nero "perfetto", quasi impossibile da fissare e mantenere, bensì di un colore scuro che gli si avvicinava.

Di Elena Percivaldi, estratti "BBC History Italia", novembre 2015, pp. 72-77.  Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.



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