3.17.2017

VERSAMI DA BERE



Come il rapporto  con birra e vino ha influenzato la storia.

Nel Medioevo gli ubriachi venivano esposti al pubblico ludibrio “vestiti” di un barile di birra. E se oggi la sbornia porta alla mente immagini di vizio ed eccessi, fino a pochi decenni fa il consumo di alcolici era ampiamente tollerato anche fra i bambini.

Il rapporto con l’alcol (dall’arabo al-kohl, “essenza”) ha avuto nei secoli un percorso molto accidentato e variabile. E, a seconda delle epoche, ha svolto ruoli inimmaginabili: è stato risorsa indispensabile alla vita, motore di civiltà, ponte per la divinità, farmaco antisettico e anestetico.

Euforia cinese. 

Il suo consumo risale alla notte dei tempi. Recentemente l’archeologo biomolecolare Patrick McGovern, del Penn Museum dell’Università di Pennsylvania, ha dimostrato che nel villaggio di Jiahu, in Cina, già nel 7000 a.C. si consumavano bevande prodotte dalla fermentazione di riso, miele e frutta. È probabile che la scoperta degli effetti euforizzanti e calorici dell’alcol sia avvenuta già nel tardo Paleolitico, magari mangiando frutta avariata che era fermentata in modo naturale. Secondo queste teorie, gli alcolici non solo agirono da “lubrificante sociale” agli albori della nostra storia ma favorirono addirittura la rivoluzione agricola del Neo litico in quanto spinsero verso la coltivazione dei cereali, necessari per la produzione delle prime bevande fermentate.

Certo è che prima del III millennio a.C. Egizi e Mesopotamici erano già forti produttori e consumatori di birre ottenute da orzo e frumento. Le “bevute” erano occasioni di incontri, divertimento e... sbornie colossali. Non solo. Nell’antico Egitto le bevande avevano un preciso significato rituale: venivano assunte ai funerali e offerte alle divinità. Addirittura, in assenza di latte materno, si svezzavano i lattanti con birra diluita con acqua e miele.

Bicchierini a fiumi. 

I Greci e i Romani bevevano a più non posso in onore di Dioniso e Bacco. La birra era la bevanda ufficiale dei Giochi olimpici, in quanto agli atleti era vietato bere vino. In Italia, intanto, stava per nascere la prima birreria. Avvenne quando Gneo Giulio Agricola, governatore della Britannia, tornato a Roma nell’83 d.C. si portò tre mastri birrai da Glevum (l’odierna Gloucester) e aprì il primo pub della nostra Penisola.

L’età del cristianesimo non fu certo accompagnata dalla condanna verso l’alcol. Nel Vecchio e nel Nuovo Testamento il vino ha un enorme significato simbolico: se Noè piantò la prima vigna (“E avendo bevuto vino, si inebriò e giacque scoperto nella sua tenda”, Genesi 9, 21), uno dei miracoli compiuto da Gesù fu trasformare l’acqua in vino alle nozze di Cana(Giovanni 2,1-11). Con la caduta dell’Impero romano la produzione di vino per l’eucarestia divenne un’attività riservata ai monasteri. Nel V secolo san Benedetto nel suo Ora et Labora pose il vino come alimento base per i monaci, fissando addirittura la dose giornaliera a disposizione: un quarto di litro (nel XV secolo salì a un litro nei giorni di festa) da mescolare con acqua, per non offuscare la mente durante le preghiere.

Terapeutico. 

Durante il Medioevo il vino scorreva a fiumi. Birra e vino erano infatti le principali bevande dissetanti, consumate quotidianamente da tutti e a tutte le età. Era il timore ispirato dall’acqua a spingere le persone verso questa ubriacatura collettiva: spesso infetta, poteva davvero provocare malattie gravi e mortali. Persino Louis Pasteur, padre della microbiologia, nel suo trattato Études sur le vin del 1866 scrisse che il vino è la più salutare e igienica di tutte le bevande.

Ma c’è di più. Per migliaia di anni di storia della medicina e della chirurgia, dai tempi di Ippocrate e Galeno, l’alcol è stato visto come l’unica sostanza antisettica, anestetica e cardiotonica disponibile. L’uso del vino a scopo terapeutico, in particolare nella pratica chirurgica,continuò ovviamente anche nel Medioevo: il celebre chirurgo francese Guy de Chauliac puliva le ferite del torace con lavaggi a base di vino fino a che lo stesso non risultasse pulito e chiaro. Anni dopo, il dolore procurato dalla gamba incancrenita di Luigi XIV, il Re Sole, fu alleviato facendo immergere il reale arto in una vasca piena di vino caldo aromatizzato.

E fu proprio allo scopo di produrre farmaci curativi che fu inventata la tecnica della distillazione, attribuita al grande alchimista arabo Jabir Ibn-Hayyan (VIII secolo). Piccolo particolare: è così che si ottennero anche i superalcolici. L’abitudine di prescrivere ai neonati gin e aqua vitae (“acqua della vita”, stesso significato letterale del termine gaelico uisge beatha, da cui whisky) si diffuse a macchia d’olio in seguito all’insorgere delle pestilenze del XIV secolo, in particolare della Morte nera del 1347-1351. E nel suo capolavoro Liber de arte distillandi del 1500 il celebre alchimista Hieronymus Brunschwig così si espresse a favore dell’alcol distillato: “Conferisce un bel colorito, cura la calvizie, uccide pulci e pidocchi. Inoltre, infonde coraggio alle persone e ne migliora le capacità mnemoniche”. Antialcolismo militante.

Furono anni di sbornie ed eccessi. Sia nell’Olanda del Seicento sia in Inghilterra negli anni che seguirono le guerre di successione spagnole (1701-1715), il vizio della bottiglia era endemico. E pochissimi gentlemen si preoccupavano del cattivo ascendente che l’alcol poteva avere sulla loro condotta. Lo dimostrò l’apertura del club londinese dei Brilliants nel 1790: l’unica regola per essere ammessi riguardava il numero minimo di bottiglie di vino, ben tre, che ciascun socio doveva tracannare ogni sera.

Eppure fu proprio in Gran Bretagna, anche se in ambienti quaccheri e metodisti, che partì la prima ondata moralizzatrice, e sempre qui venne varata la prima legge che vietava l’ubriachezza per ragioni di ordine pubblico. Ma la svolta destinata a cambiare per sempre il rapporto tra l’uomo e le sostanze alcoliche, a cavallo tra il ’700 e l’800, arrivò dagli studi dello psichiatra americano Benjamin Rush e del britannico Thomas Trotter che, negando ogni presunta virtù medicinale all’alcol, individuarono nel bere sregolato una malattia cronica e potenzialmente mortale.

Il medico scozzese Robert Macnish descrisse nel 1836 i sette “profili” di etilista (il sanguigno, il melanconico, lo scorbutico, il flemmatico, l’irrequieto, il collerico e il periodico) mentre il luminare svedese Magnus Huss, docente all’Università di Stoccolma, inventò nel 1849 il termine “alcolismo”. Le loro scoperte prepararono il terreno ai primi movimenti proibizionisti, come la Women’s Christian Temperance Union, fondata nel 1874, e la Lega anti-saloon nel 1893. Pochi anni dopo l’America si preparava a entrare nell’era del proibizionismo (1919-1933). Allo scoccare della mezzanotte del 16 gennaio 1919 l’Hotel Vanderbilt di New York offrì champagne a tutti i clienti, al suono della canzone Goodbye forever.

Doppio volto. 

L’esperimento americano produsse risultati catastrofici, dalla nascita del mercato nero alla vendita illegale. Ciononostante gli elevatissimi consumi di bevande alcoliche, nei primi anni del XX secolo, spinsero alcuni Paesi europei, tra cui Francia e Belgio, a un giro di vite. I cugini d’Oltralpe proibirono liquori a base di essenze vegetali, come l’assenzio. In Italia, il Codice Rocco, emanato nel 1930 dal regime, vietò tabacco e alcol sotto i 16 anni. Negli anni successivi, queste leggi restrittive riuscirono a ridurre i consumi.

Ma l’alcol continuava – e continua – a conservare il suo doppio volto: vizio da una parte, oggetto del desiderio dall’altra. “Merito” anche del cinema (quanti aperitivi e drink bevevano gli attori di Hollywood cinquanta, sessant’anni fa?) e delle martellanti campagne pubblicitarie che per anni hanno esaltato gli aspetti salutisti, socializzanti e seduttivi di birre, amari, spumanti e via bevendo.

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Lei non può

Il rapporto tra le donne e l’alcol? È stato spesso controverso. Nella società patriarcale e maschilista dell’Impero romano, le donne honestae (cioè le vergini e le matrone) dovevano astenersi dal bere vino puro, licenzioso e immorale. Per l’imbecillus sexus, la bevanda proibita poteva essere usata solo come eccipiente nelle erbe medicinali, e con l’autorizzazione del pater familias. Secondo Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.), infrangere il divieto era colpa equiparata all’adulterio e, quindi, punibile con la morte o il ripudio. Come strumento di controllo, i maschi della famiglia avevano un’arma imbattibile: lo ius osculi, la “prova del bacio”.

A tutta birra. 

Ci sono state epoche e culture in cui invece le donne erano libere di bere a loro piacimento. Secondo il più famoso scrittore di letteratura sul vino, Hugh Johnson, per esempio, nell’Olanda del Seicento le donne bevevano quasi quanto gli uomini. Fu così che l’ambasciatore inglese Sir William Temple riferì sdegnato: “Le giovani bevono birra tutto il giorno finché al loro aspetto rigonfio si aggiunge un’espressione di inetta stupidità che non le abbandona mai”.

Di Claudia Giammatteo, estratti "Focus Storia", Aprile 2017, Italia.pp.26-31  Adattato e illustrato per essere pubblicato da Leopoldo Costa.

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