1.21.2018
UNA RIVOLUZIONE STRISCIANTE: IL PROGRESSO
La crescita vertiginosa delle conoscenze negli ultimi due secoli, in cui nuove idee hanno soppiantato antiche convinzioni, la si deve allo scambio continuo di cognizioni e all’affermazione del principio: è vero solo ciò che si può sperimentare scientificamente.
Qual è la spiegazione per il vertiginoso miglioramento delle condizioni di vita a cui abbiamo assistito negli ultimi due secoli? Quando si comincia a ragionare sull’origine della crescita economica moderna, per dirla con le parole del Premio Nobel 1988 per l’Economia Robert Lucas, “diventa difficile pensare ad altro”. E se questo è il pensiero di un esperto mondiale di cicli economici, che cosa dovrebbero pensarne gli storici dell’economia? La letteratura sull’argomento è già vastissima e a prima vista non sembrerebbe ci sia nulla da aggiungere a un argomento già così sviscerato.
Tuttavia, c’è anche un aspetto curioso, ossia che fino a oggi la cultura – intendendo con questo termine l’insieme delle convinzioni, delle preferenze e dei valori di una società, inclusi gli orientamenti sociali, morali e la religione – ha giocato un ruolo assai marginale nel dibattito. Finora la parte del leone l’ha sempre fatta l’economia, forse perché gli esperti del settore, ai quali si deve gran parte del lavoro storico sull’argomento negli ultimi decenni, hanno sempre osteggiato l’idea di includere la cultura in qualunque spiegazione di natura storica.
Ma negli ultimi anni si è assistito a un cambiamento di tendenza, e ora sembra arrivato il momento giusto per domandarsi se nella cultura europea precedente al 1750 ci fosse effettivamente qualcosa di specifico che ha innescato l’enorme progresso scientifico e tecnologico da cui è scaturito il “Grande Arricchimento” (nome che qualcuno ha voluto dare all’ingente prosperità dell’era moderna).
Innanzitutto, però, bisogna stabilire di quali aspetti della cultura stiamo parlando, e di quale cultura. Per cominciare a far luce sulla questione, dunque, serve dipanare la sua definizione, un’operazione troppo grande perché la possa compiere un singolo studioso. Per questo recentemente molti economisti hanno concentrato la loro attenzione sulle élite intellettuali e sulla loro fiducia in quelle che gli scrittori del XVIII secolo chiamavano “filosofia naturale” (la scienza) e “arti utili” (la tecnologia).
Coloro che scoprirono l’energia a vapore, il vaccino contro il vaiolo, il carbone coke e l’illuminazione a gas appartenevano a un livello molto colto ed educato della società ed erano – quasi senza eccezione – persone che facevano vaste e variegate letture, che si tenevano in costante contatto le une con le altre per scambiarsi quelle che chiamavano “conoscenze utili”.
Oggi ricordiamo ancora i nomi di alcune di queste “società di intellettuali” e i luoghi in cui si riunivano: la Lunar Society di Birmingham e la società della Chapter Coffee House di Londra sono tra gli esempi più famosi. Questa nuova, brillante generazione di pensatori era arrivata a concepire l’idea che da una maggiore comprensione dei fenomeni naturali sarebbe potuto scaturire un miglioramento nelle condizioni di vita dell’essere umano: un pensiero che a noi oggi sembra del tutto normale – per non dire banale – ma che nel 1600 (anno in cui Francis Bacon lo formulò per primo) era ancora una controversa novità.
Fu così che gli sforzi congiunti di scienziati, matematici, ingegneri e artigiani finirono per avere un successo addirittura superiore alle aspettative, tanto che l’innalzamento del tenore di vita e della disponibilità di comfort materiali di cui il mondo ha beneficiato a partire dalla Rivoluzione industriale va giustamente considerato il più importante evento economico della storia umana.
Dunque, come ci siamo arrivati? Per trovare una risposta bisogna innanzitutto constatare che l’essere umano si direbbe geneticamente programmato per onorare la sapienza dei suoi antenati e sentirsi inferiore di fronte alle conoscenze del passato. Che si tratti di fede nel Talmud (uno dei testi sacri dell'ebraismo), nel Corano, in Confucio, in Aristotele o in Galeno, la nostra storia sembra pervasa dalla convinzione che la “verità” sia stata rivelata a quelli venuti prima di noi e che la sapienza autentica si possa trovare solo esaminando gli scritti del passato e dissezionandoli fino a far emergere il loro “vero significato”.
L'epoca dello scetticismo
Ma nel XVI secolo quella convinzione subì un colpo fatale. È vero che nel 1580 un professore di Oxford poteva ancora vedersi multato di cinque scellini per aver insegnato qualcosa che contraddiceva l’autorità di Aristotele, ma Oxford era una realtà retrograda: all’epoca il canone classico era già messo pesantemente sotto accusa da vari fronti. Se il mondo intellettuale del XV secolo era vissuto all’ombra dell’insegnamento classico, quello del XVI e dei successivi generò “ribelli senza rispetto” come Paracelso, Harvey, Ramus, Brahe e Boyle, che, forti delle loro nuove osservazioni sperimentali, gettarono alle ortiche i testi classici di fisica e medicina preferendo quelle che ai loro occhi erano prove logiche e persuasive. Nel suo innovativo testo De Magnete (1600) lo scienziato inglese William Gilbert arrivò ad affermare che non avrebbe più perso tempo “a citare i Greci e gli altri antichi” per supportare le sue tesi, dato che gli errori che aveva riscontrato in autori classici come Plinio e Tolomeo erano diffusi “come le peggiori erbacce nocive in un rigoglioso giardino”.
Peraltro le norme per stabilire il vero e il falso non cambiarono dall’oggi al domani: l’assioma per cui “Aristotele (o la Bibbia) dice così, quindi deve essere vero” non era più ritenuto valido da buona parte degli intellettuali, ma le menti più conservatrici scatenarono una enorme resistenza, dando origine alla famosa battaglia tra “antichi” e “moderni” che caratterizzò fortemente quell’epoca e si concluse con la chiacciante vittoria dei secondi. I grandi testi classici conservarono il loro posto nei curricula universitari, ma persero qualunque autorevolezza in campi come la comprensione della natura. E una volta che la nuova generazione di pensatori ebbe tolto il monopolio della conoscenza ad Aristotele, Tolomeo e Galeno e aperto l’era del Nullius in verba (“Non fare affidamento sulle parole di nessuno”, motto ufficiale della Royal Society), nacque la modernità. Insomma, si potrebbe dire che il punto di partenza del progresso sia stato lo scetticismo.
Il mercato delle idee
Sorge però una nuova domanda: perché tutto ciò accadde nell’Europa cinquecentesca e non, per esempio, in Cina o nell’Impero Ottomano? Alcuni fattori potrebbero essere i grandi viaggi di scoperta intrapresi in quel secolo dalle potenze europee e la nuova possibilità di osservare fenomeni ignoti alla conoscenza classica (per esempio l’invenzione del microscopio, del telescopio e della pompa a vuoto), che crearono una dissonanza cognitiva a sua volta destinata a generare nuovi dubbi. La medesima dissonanza produsse la Riforma protestante, altro esempio di ribellione e pensiero critico verso qualcosa che fino ad allora era percepito come sacrosanto. Ma c’è di più.
Secondo l’economia, le idee innovative sono stimolate dalle forze della domanda e dell’offerta oltre che dalle convinzioni culturali di una società. Da qui i filosofi e gli economisti hanno proposto il concetto di “mercato delle idee”, che si baserebbe sulla persuasione e l’influenza: tutti gli intellettuali dell’epoca, da Lutero a Copernico, da Spinoza a Newton, avrebbero concepito nuove idee e, conseguentemente, cercato di “venderle” nei rispettivi ambienti usando le prove, la logica, la retorica, l’analisi matematica e i risultati sperimentali.
Si tratta chiaramente di una vendita metaforica, senza alcun coinvolgimento di denaro, ma i benefici che ne derivarono furono reali: dalla fama nacquero le offerte di patrocinio, e gli intellettuali più noti vennero beneficiati e finanziati da sovrani, aristocratici e ricchi borghesi.
Alcuni dei più grandi scienziati dell’epoca erano medici che lavoravano per i propri mecenati. Il celebre biologo italiano Francesco Redi era medico di corte della famiglia Medici nonché segretario e supervisore della loro farmacia e della loro fonderia. Leibniz fu consigliere di più di un re. Altri, tra cui Isaac Newton da giovane, si cercarono impieghi sicuri nelle università, dove le cattedre di ruolo di fatto funzionavano come un patrocinio. A volte, nei casi di “celebrità dell’intelletto” come Galileo, Newton, Huygens e Leibniz, tutto ciò non significava solo sostegno economico, ma anche accesso alle maggiori figure d’autorità e, di conseguenza, status sociale, prestigio e autorevolezza.
Repubblica delle Lettere
Un altro motivo che rese l’Europa precedente al 1750 terreno fertile per la nascita di nuove idee era la sua predisposizione pressoché unica a sfruttare al meglio quel rapporto tra dimensione e competitività che sta alla base di qualunque “mercato” di successo. L’economia ci insegna che il mercato tende a essere più produttivo, creativo e affidabile quando è competitivo, ma per creare vera competizione serve un buon numero di partecipanti. Nel contempo, però, esistono le economie di scala: le grandi unità che dominano i rispettivi mercati sono in grado di ottenere risultati impossibili per le unità più piccole. Il “mercato delle idee” andò incontro allo stesso dilemma: la necessità di una sana competizione da cui tuttavia nasceva un ambiente che avrebbe potuto non riuscire a raggiungere mai un’economia di scala.
Ora, considerate la situazione politica dell’Europa all’inizio dell’era moderna: il continente era frammentato in una miriade di entità politiche di piccole e medie dimensioni, uno stato di cose che nemmeno gli sforzi del Sacro Romano imperatore Carlo V furono in grado di cambiare. Persino i Paesi più grandi, come Francia e Spagna, erano divisi al loro interno in regioni, città e gruppi d’interesse in reciproca competizione. La Germania e l’Italia, poi, erano di fatto formate da una costellazione di staterelli indipendenti.
A tutto ciò faceva da corollario la competizione religiosa, da quando la Chiesa cattolica aveva perso il proprio monopolio. Eppure questa frammentazione, che portò a infiniti e sanguinosi conflitti, ebbe anche effetti positivi. Nel 1742 David Hume scrisse: “Nulla è più favorevole allo sviluppo della buona educazione e della cultura di un buon numero di Stati indipendenti e confinanti, interconnessi da legami di commercio e politica. Lo spirito di emulazione che sorge naturalmente in tali circostanze… è un ovvio motore di miglioramento”.
In un ambiente così competitivo le singole entità politiche incontravano difficoltà a reprimere le nuove idee, persino le più eterodosse o eretiche. Molti Stati ci provarono lo stesso con le persecuzioni e la censura, e alcuni intellettuali sfortunati (tra i casi più famosi Michele Serveto, messo al rogo dai calvinisti, e Giordano Bruno, arso vivo dall'Inquisizione cattolica) pagarono con la vita, ma si trattava di misure condannate al fallimento sul lungo periodo.
Spostandosi spesso e pubblicando i loro scritti all’estero, gli intellettuali innovatori potevano sfruttare a proprio vantaggio le rivalità dei poteri politici: autori particolarmente eversivi come il medico svizzero Paracelso e il filosofo ed educatore moravo Giovanni Amos Comenio si trasferirono più volte da un capo all’altro dell’Europa. Tra il 1500 e il 1700 le forze reazionarie erano ancora potenti e determinate, ma destinate a fallire per mancanza di coordinamento, al punto che i loro sforzi si poterono considerare conclusi già attorno al 1650.
La vittoria andò alla fine al nuovo spirito di tolleranza intellettuale religiosa.
Tuttavia, proprio a causa della frammentazione c’era il rischio che la creatività finisse per scontrarsi con problemi legati ai “numeri”: i potenziali lettori che avrebbero potuto apprezzare i lavori di Newton o Cartesio o Vesalio in ogni singolo Paese o regione erano semplicemente troppo pochi perché valesse la pena scrivere solo per loro. Uno studioso del XVI o del XVII secolo che volesse crearsi una reputazione doveva necessariamente rivolgersi a un pubblico europeo, non a uno inglese o francese o fiammingo. Dunque quella che emerse nell’Europa della prima età moderna fu una comunità intellettuale, integrata e sovranazionale dentro la quale le nuove idee venivano diffuse, discusse, valutate e accettate o rifiutate solo in base alla loro validità.
Un nuovo concetto enunciato a Londra sarebbe stato presto discusso a Edimburgo, Parigi, Amsterdam, Madrid, Napoli e Stoccolma. L’Europa possedeva insomma il meglio delle due situazioni: c’erano i vantaggi della frammentazione, ma senza che le nuove opere d’ingegno dovessero rinunciare a un pubblico di proporzioni continentali. La comunità intellettuale che andò a formare questo “mercato” chiamò se stessa “Repubblica delle Lettere”, e “cittadini” i suoi componenti.
A rendere possibile tutto ciò fu una compresenza di fattori antichi e meno antichi. Le radici medievali della situazione affondavano nelle comunità intellettuali sovranazionali nate in seno alla Chiesa cattolica (il latino stesso rimase la lingua franca degli studiosi per tutto quel periodo).
La stampa ovviamente rese più economico l’accesso alle opere scritte e ridefinì i parametri della comunicazione intellettuale. Ma di eguale importanza furono gli scambi epistolari, favoriti dalla grande crescita delle comunicazioni e dal diffondersi di un sistema postale, senz’altro costoso, lento e inaffidabile ma nondimeno indispensabile.
Dall’esame di questi carteggi (molti dei quali sono arrivati fino a noi) emerge bene la stretta rete di comunicazione tra gli intellettuali europei: la Repubblica delle Lettere era una comunit à “virtuale”, che collegava persone che si conoscevano le une con le altre solo per fama e reputazione intellettuale. Era un sistema lento, ma funzionava, e la gente dell’epoca era pienamente consapevole del suo significato: a metà del XVIII secolo Voltaire, riflettendo sul passato, scrisse che “…Si era creata, quasi senza che nessuno se ne accorgesse, a dispetto delle guerre e delle differenze religiose, una Repubblica delle Lettere…
Grazie a essa tutte le scienze e le arti ricevevano mutua assistenza… I veri studiosi di ciascun campo del sapere annodarono i fili di questa vasta società di intelletti, ovunque diffusa e ovunque indipendente… E tale istituzione esiste ancora, ed è una delle maggiori consolazioni ai mali che la politica e l’ambizione hanno diffuso sulla faccia della Terra”.
Le Meta-idee
Una delle chiavi del successo della Repubblica delle Lettere fu la sua natura internazionale, che permetteva a qualunque studioso che avesse la necessità di riparare all’estero di trovare accoglienza presso chi lo conosceva per fama e lo apprezzava. Hobbes scrisse Il Leviatano a Parigi, Locke stese la Lettera sulla tolleranza ad Amsterdam e Pierre Bayle, l’editore francese delle Notizie dalla Repubblica delle Lettere, lavorava nella sicurezza garantita dalla città di Rotterdam. Insomma fu proprio la Repubblica delle Lettere a far funzionare il “mercato delle idee”, anche se sarebbe errato sostenere che ciò portò al trionfo automatico delle “idee migliori” (l’Europa tentò invano di sconfiggere le malattie infettive e di controllare l’elettricità fino alla seconda metà del XIX secolo, giusto per fare un esempio).
Tuttavia, ci furono successi nel “mercato del progresso” che sono ammirati ancora oggi: nel 1650 il modello cosmologico tolemaico (che poneva la Terra al centro dell’Universo) era stato del tutto abbandonato; la scoperta dell’atmosfera terrestre e quella del vuoto resero possibili le macchine a vapore; l’unione di geografia e matematica portò al concetto che, comparando l’ora di un punto qualsiasi del globo con quella di un punto prefissato, si può calcolare la longitudine. Quest’ultima scoperta stimolò gli orologiai a tentare di costruire un cronometro che permettesse di eseguire queste misurazioni, opera infine realizzata da John Harrison.
Ma i maggiori trionfi nel campo della ragione furono probabilmente le meta-idee, ovvero non le idee su specifiche questioni scientifiche, ma quelle sul “come” e sul “perché” si dovesse fare filosofia naturale. Il “perché” fu presto perfettamente chiaro se nel 1664 Robert Boyle, facendo eco al suo predecessore Francis Bacon, poteva scrivere: “Se i veri principi di questa fertile scienza (la fisiologia) fossero pienamente conosciuti, esaminati e applicati, nel mondo si verificherebbe un cambiamento talmente universale e vantaggioso che è difficile immaginarlo”. Nel Settecento i pionieri della tecnologia compresero di aver bisogno del supporto degli scienziati, e attorno alla metà del secolo protagonisti della Rivoluzione industriale quali John Smeaton, Josiah Wedgwood e James Watt cercavano assiduamente il consiglio degli studiosi all’avanguardia nei vari campi della scienza.
I cambiamenti che investirono il “come” furono altrettanto fondamentali grazie al trionfo del metodo sperimentale, ovvero la comprensione che il sistema migliore per verificare un’ipotesi erano i dati ricavati da un esperimento, e non l’autorità di Aristotele. La scienza sperimentale richiese una maggiore precisione sia negli strumenti sia nei materiali impiegati, la creazione di una terminologia standard e di unità di misura universali e una comunicazione chiara e dettagliata che permettesse di riprodurre e verificare ogni esperimento.
La ricerca stessa divenne più formale e matematica: fu Galileo a fare la famosa affermazione secondo la quale il libro della Natura è scritto nella lingua della matematica. Già a metà del XVII secolo era impossibile dedicarsi seriamente alla fisica senza possedere una solida preparazione matematica. E, dove non poteva arrivare l’analisi matematica, arrivava l’osservazione diretta: si potevano guardare, contare, catalogare e classificare realtà di ogni genere, dalle piante ai pianeti, nella speranza che emergessero regole e schemi che avrebbero aiutato a comprendere meglio il funzionamento della natura. In questi campi si distinsero celebri astronomi e naturalisti come Flamsteed e Linneo.
In conclusione, questa tesi va contro il materialismo storico, ovvero l’idea che il motore del progresso sia quello dei bisogni materiali. A dirigere la storia sono le idee, non meno di quanto le condizioni materiali dirigano i cambiamenti intellettuali. Quel che è certo, in ogni caso, è che la storia della crescita economica nell’era moderna verrà raccontata, spiegata e interpretata in molti modi diversi. Il che, ancora una volta, dimostra tutta l’utilità di un “mercato delle idee” ben funzionante.
Testo di Joel Mokyr pubblicato in "BBC History Italia", , Italia, Luglio 2017, n. 75, estratti pp.66-71. Digitalizzati, adattato e illustrato per Leopoldo Costa

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