1.06.2019

SCONFIGGEREMO L’INVECCHIAMENTO?


Vivere fino a 120 anni.

Lo scorso marzo, alcuni funzionari del Guinness dei Primati si sono recati a Haifa, Israele, per far visita a un venditore di dolciumi in pensione chiamato Yisrael Kristal. Scopo della visita era dichiarare l’uomo, che aveva 112 anni e 178 giorni, l’individuo più vecchio sulla faccia della Terra.

Kristal ha vissuto una vita straordinaria. Quando è nato, nel 1903, la speranza di vita di un ragazzino nato in Polonia era di appena 45 anni. L’uomo ricorda che, da bambino, lanciava caramelle a Francesco Giuseppe, imperatore del regno austroungarico. Da adulto ha fondato una fabbrica di caramelle a Lodz. Ha vissuto due guerre mondiali ed è sopravvissuto per quasi un anno in diversi campi di concentramento, tra cui tre mesi ad Auschwitz, dove sua moglie e i suoi due figli sono stati uccisi. Dopo essersi risposato, è emigrato in Israele, dove confezionava dolciumi artigianali. Oggi ha una ventina di pronipoti e una marea di bisnipoti. Nato nell’era delle lampade a gas, oggi questo ultracentenario vive nell’era di Twitter.

«Il traguardo raggiunto del signor Kristal è davvero notevole», ha affermato Marco Fregatti, che gestisce il Guinness dei Primati, in una dichiarazione ufficiale. In effetti la speranza media di vita di un individuo di sesso maschile nei paesi sviluppati è di circa 80 anni. Solo due persone su 10.000 vivono fino a 100 anni, e gran parte dei centenari sono donne. All’età di 112 anni e più, Kristal è prossimo al limite massimo di durata della vita mai osservato in un maschio. Nessun essere umano è vissuto più a lungo della francese Jeanne Calment, morta a 122 anni nel 1997.

E se invece di morire a 80 o 85 anni l’individuo medio vivesse fino a 100 anni, o addirittura fino a 112 come Kristal? Le false promesse di una vita più lunga, o addirittura dell’immortalità, risalgono ai tempi degli alchimisti, ma finora non sono state presentate molte prove concrete a supporto di tanto ottimismo.

Tuttavia alcuni scienziati ritengono che i centenari come Kristal invecchino davvero più lentamente della persona media. Scoperte valide provenienti da recenti ricerche in biologia suggeriscono che periodi di estrema restrizione calorica – forse come quelli vissuti dal nostro fabbricante di caramelle – influenzino la durata della vita delle cellule. Queste ricerche stanno indicando modim più precisi di estendere questi limiti, non con la dieta ma con i farmaci.

Una mezza dozzina circa di sostanze, farmaci o integratori, già approvati per uso umano per altri scopi, si è rivelata in grado di colpire specifici meccanismi all’interno delle nostre cellule, che sembra migliorino il controllo sul danno interno e dunque aiutino a prolungare la vita. Alcune di queste sostanze, fra cui un farmaco anticancro, hanno già dimostrato di aumentare la durata della vita media e massima nei topi e in altri animali da laboratorio. E un diffuso farmaco per il diabete, la metformina, sta per essere sottoposto al primo trial clinico mai ideato per rivelare se un farmaco funziona per rallentare l’invecchiamento delle persone.

In virtù di queste attività, un gruppetto di importanti esperti di invecchiamento sta cominciando a sostenere che un significativo allungamento della vita potrebbe tradursi in realtà già nel corso dell’esistenza di coloro che stanno leggendo questa rivista. «Le chiacchiere sulla possibilità di vivere per sempre e “manipolare” l’invecchiamento sono state così tante da oscurare quasi ciò che oggi sappiamo essere realmente possibile», dice Matt Kaeberlein, gerontologo all’Università di Washington. «Per come stanno andando le ricerche, io vedo possibili incrementi tra il 25 e il 50 per cento degli anni di vita in buona salute entro i prossimi 40 o 50 anni».

«C’è stata una massiccia risposta e un grande interesse, e la sensazione che stia per accadere qualcosa di importante», dice Nir Barzilai, uno dei responsabili del trial con la metformina e direttore delle ricerche sull’invecchiamento presso l’Albert Einstein College of Medicine. «Credo che otterremo risultati significativi. I prossimi farmaci saranno migliori».

Oltre la dieta

L’invecchiamento è radicato almeno in parte nei nostri appetiti. Sin dagli anni trenta del Novecento è noto che fornire ad animali da laboratorio come topi e ratti un’alimentazione insufficiente può consentire loro di vivere più lungo: in alcuni esperimenti fino al 40 per cento in più del normale. Anche un non scienziato come Kristal ritiene che i periodi in cui ha sofferto la fame, durante e dopo la seconda guerra mondiale, possono aver contribuito alla sua longevità. In un’intervista al quotidiano «Haaretz», Kristal ha detto: «Mangio per vivere, non vivo per mangiare. Non abbiamo bisogno di molto; gli eccessi non vanno bene».

Sfortunatamente, o forse per fortuna, a seconda del punto di vista, esperimenti su scimmie, più simili agli esseri umani, sottoposte a un regime calorico estremamente restrittivo hanno dato risultati controversi. Un regime calorico particolarmente contenuto sembrava funzionasse bene in uno studio, ma poi un altro ha dimostrato che limitarsi a una dieta più naturale e a base di cibi non raffinati, con un basso contenuto di zuccheri, era altrettanto benefico, a prescindere dall’apporto calorico. E in ogni caso pochissimi esseri umani possono seguire continuativamente una dieta che prevede un taglio calorico del 25 per cento.

Gli esperimenti condotti su organismi semplici hanno però rivelato specifici percorsi biochimici cellulari benefici che vengono innescati quando i nutrienti sono scarsi. Queste vie biochimiche si sono evolute per consentire agli organismi di sopravvivere senza cibo per lunghi periodi. In teoria, l’attivazione di queste vie con i farmaci potrebbe portare gli stessi vantaggi senza dover soffrire la fame.

Un esempio riguarda l’enzima AMPK, che agisce come una sorta di spia energetica cellulare. Quando le sostanze nutritive scarseggiano, come durante un’attività fisica intensa o in regimi calorici restrittivi, AMPK entra in azione trasportando il glucosio all’interno delle cellule per fornir loro energia e aumentarne la sensibilità agli ormoni che contribuiscono a questo trasporto, come l’insulina. L’enzima aiuta anche a scindere i grassi per produrre più energia. Durante lo sforzo fisico, l’AMPK stimola la formazione di nuovi mitocondri, i produttori di energia delle cellule. Tutti questi eventi migliorano la salute.

Ci sono prove stringenti che invecchiamento e metabolismo – il processo attraverso cui il corpo traduce il cibo in energia – siano direttamente collegati. Nel 1993 Cynthia Kenyon, dell’Università della California a San Francisco, ha scoperto che la mutazione di un unico specifico gene, chiamato DAF-2, poteva raddoppiare la speranza di vita del verme Caenorhabditis elegans. Questo gene è anche collegato ai ritmi del metabolismo. Tuttavia la genetica dell’invecchiamento è ancora relativamente poco nota, così per ora i bersagli preferiti delle ricerche sono i meccanismi cellulari di livello superiore.

Uno dei meccanismi antinvecchiamento più promettenti è stato scoperto per caso. Nel 2001 il biologo Valter Longo, della University of Southern California, si assentò per un weekend dimenticando di nutrire alcune cellule di lievito che stava usando in un esperimento. Al ritorno vide con sorpresa che il digiuno totale cui aveva involontariamente sottoposto le cellule di lievito permetteva loro di vivere più a lungo del normale. La ragione, scoprì poi, sta in una cascata di reazioni molecolari che di solito prende il nome dall’enzima che ne è protagonista, chiamato mTOR.

Questa via biochimica è stata trovata per la prima volta anni fa grazie a un farmaco chiamato rapamicina, individuato nei batteri del terreno (mTOR è un acronimo che significa «bersaglio meccanicistico della rapamicina»). Si tratta di una via biochimica importante, che regola la crescita e la divisione all’interno di una cellula, come un meccanismo che interrompe un circuito all’interno di una piccola fabbrica. Quando mTor è attivato, la «fabbrica», ovvero la cellula, produce nuove proteine, cresce e infine si divide. Quando mTOR è bloccato, come quando è inibito dalla rapamicina o da un breve digiuno, la crescita e la replicazione cellulare rallentano o si arrestano. Ecco perché la rapamicina è un efficace immunosoppressore usato per proteggere organi trapiantati e, più di recente, anche come terapia anticancro; entrambe le condizioni implicano una divisione cellulare fuori controllo. Il lavoro di Longo ha permesso di rivelare il ruolo cruciale svolto da mTOR nell’invecchiamento. Quando le sostanze nutritive scarseggiano mTOR è inibito, e la fabbrica aumenta la propria efficienza operativa, riciclando vecchie proteine per produrne di nuove, aumentando la produzione di meccanismi di pulizia e riparazione cellulare. La divisione cellulare rallenta, e l’animale è più capace di sopravvivere fino al pasto successivo.

«Ciò che mTOR fa in effetti è percepire l’ambiente: se c’è una gran quantità di cibo disponibile allora viene attivato e induce gli organismi semplici a svilupparsi in maniera davvero rapida e a riprodursi», spiega Kaeberlein. «Ciò è perfettamente ragionevole, perché quando c’è una gran quantità di cibo in giro è davvero un buon momento per riprodursi». Non ci si deve meravigliare per il fatto che il meccanismo incentrato su TOR sia stato un successo evolutivo così grande, usato e riusato da numerose creature in entrambe le direzioni lungo l’albero della vita, a partire dalle cellule di lievito per salire su, fino all’essere umano e alle balene.

Poi, nel 2009, un gruppo di scienziati ha annunciato su «Nature » che la rapamicina prolungava la vita dei topi. La scoperta era stupefacente: nessun altro farmaco aveva mai allungato la speranza di vita dei mammiferi in un esperimento strettamente controllato. E non si trattava semplicemente di un gruppo di topi, ma di tre gruppi di animali geneticamente eterogenei. Tutti i gruppi sono vissuti più a lungo, e non soltanto in media: ad allungarsi era stata la durata massima di vita delle cavie, un risultato che è stato interpretato come una chiara prova che il farmaco stava rallentando il processo di invecchiamento.

I topi cui era stata somministrata la rapamicina sembravano, in generale, in condizioni di salute migliori, e si mantenevano più giovanili per tempi più lunghi rispetto ai roditori che non avevano ricevuto il farmaco. I loro tendini, per esempio, rimanevano più flessibili ed elastici, e lo stesso accadeva a cuore e vasi sanguigni. Persino il loro fegato era in condizioni migliori rispetto a quello dei topi di controllo. Gli animali rimanevano più attivi addirittura quando invecchiavano. Ma c’è di più: la rapamicina aumentava la durata di vita media e massima, anche se i topi incominciavano ad assumerla all’età di 20 mesi. Era come somministrare a donne di 70 anni una pillola che le avrebbe fatte vivere fino a oltre 90.

Altri laboratori sono riusciti a riprodurre questi risultati e ad ampliarli. Topi cui la rapamicina veniva somministrata per tutta la fase adulta finivano col vivere il 25 per cento in più del normale, un aumento simile a quello che si sarebbe riscontrato se fossero stati sottoposti a restrizione calorica. È vero, i topi non sono uomini, ma la rapamicina faceva per lo meno ipotizzare che qualcosa potesse rallentare l’invecchiamento e ritardare l’insorgere dei disturbi correlati all’età. «La rapamicina è stato il primo segnale concreto, il primo farmaco che, a detta di tutti, poteva rappresentare un’autentica svolta», dice Brian Kennedy, del Buck Institute for Research on Aging.

La rapamicina, tuttavia, non è priva di inconvenienti: può avere effetti collaterali spiacevoli come la comparsa di ferite nel cavo orale in alcuni pazienti, e più spesso di infezioni (dato che sopprime le risposte immunitarie). In studi sui topi gli individui di sesso maschile manifestavano sofferenza derivante dal raggrinzimento dei testicoli. Quegli effetti erano accettabili per i malati di tumore e i trapiantati, i quali erano già abbastanza malati, ma avrebbero potuto rendere inadatta la rapamicina come farmaco antinvecchiamento per persone in buona salute. La terapia avrebbe potuto essere peggiore della malattia. Ma che sarebbe successo se la rapamicina fosse stata somministrata a quelle persone in buona salute in una formulazione diversa o in dosaggi minori? Avrebbe potuto allungare allo stesso modo la durata della vita umana?

Per cercare di rispondere a queste domande Kaeberlein e il suo collega Daniel Promislow stanno cominciando un trial clinico insolito, somministrando rapamicina a basso dosaggio a cani domestici di mezza età. I nostri amici a quattro zampe, ragionano i ricercatori, sono ragionevoli sostituti dell’uomo: «Condividono il nostro ambiente e si ammalano di tutte le malattie di cui ci ammaliamo noi invecchiando», dice Kaeberlein. Secondo i loro dati preliminari, i cani trattati con rapamicina per poche settimane mostrano una funzionalità cardiaca assai più simile a quella giovanile. «Possiamo vedere chiaramente che il cuore si contrae meglio nei cani che hanno ricevuto rapamicina», dice Kaeberlein. «In animali che invecchiano, uno scarso flusso sanguigno probabilmente è un fattore coinvolto nel declino di altri tessuti corporei».

Un segnale incoraggiante del potenziale uso del farmaco come agente anti-invecchiamento, dice Kaeberlein, deriva dal fatto che, a basse dosi, la rapamicina potrebbe funzionare in modo assai più simile a un modulatore inmmunitario che come soppressore. Di fatto sembra che, a bassi dosaggi, aumenti alcuni tipi di funzionalità del sistema immunitario.

In effetti un piccolo trial umano effettuato dalla Novartis, che vende come terapia anticancro una versione della rapamicina con il nome commerciale di Afinitor, ha dimostrato che adulti anziani che assumevano il farmaco rispondevano meglio a un vaccino antinfluenzale. Questo starebbe a indicare che la rapamicina potrebbe aumentare in alcuni casi la risposta immunitaria. Un’altra prova interessante arriva da uno studio olandese che ha scoperto che novantenni in buona salute hanno livelli più bassi dell’attività di mTOR.

Se ci saranno i fondi, il prossimo passo sarà uno studio longitudinale a lungo termine sulla rapamicina in cani più anziani, per monitorare i progressi degli animali man mano che invecchiano. Se i risultati rifletteranno quelli nei topi, ovvero se i cani vivranno più a lungo conducendo un’esistenza più sana, potranno giustificare un trial clinico sull’uomo. «Entro cinque anni potremmo sapere fino a che punto funziona la rapamicina», dice Kaeberlein.

Allungare la vita

La chiave di tutto questo discorso è riuscire a collegare gli aggettivi «più sano» e «più lungo». La durata della nostra vita si sta allungando, ma gli ultimi anni di esistenza sono soggetti a malattie e disabilità. Come hanno dimostrato i demografi James W. Vaupel e Jim Oeppen su «Science» nel 2002, la speranza di vita per le popolazioni più longeve sta crescendo più o meno linearmente dal 1840 circa. Gli esseri umani stanno vivendo a lungo come mai prima nella storia della nostra specie.

Tuttavia il periodo di vita in buona salute non si sta allungando altrettanto rapidamente. Ciò significa che il periodo di malattia e di disabilità al termine della vita, il temuto declino della vecchiaia, di fatto sta diventando più lungo. L’unica cosa che cambia, via via che viviamo sempre più a lungo, è che ci ammaliamo di malattie differenti. Mentre i tassi di mortalità dovuti a malattie cardiache e al cancro crollano, un numero sempre maggiore di persone si ammala di Alzheimer.

«L’incremento dell’incidenza della malattia di Alzheimer è stato stupefacente, ma è proprio quello che ci si dovrebbe attendere se consentiamo che le persone arrivino fino a fasce di età in cui questa malattia è comune, cioè dopo i 70 e gli 80 anni», dice S. Jay Olshanski, demografo all’Università dell’Illinois a Chicago. «Se proseguiremo lungo questa strada credo che le cose peggioreranno. L’alternativa è rallentare l’invecchiamento e comprimere morbidità e mortalità in un periodo di tempo più breve».

Olshanski non ha mai incontrato Kristal, che sembra proprio il tipo di persona che il demografo ha in mente. A 112 anni Kristal è tuttora mentalmente brillante, oltre che un vivace conversatore. È riuscito a resistere alla funesta piaga dell’invecchiamento, evitando non solo cancro e malattie cardiache ma anche Alzheimer e diabete, che insieme sono responsabili della grande maggioranza dei decessi nel mondo sviluppato.

Nei centenari come lui, hanno scoperto i ricercatori, il periodo dimostrado di malattia alla fine della vita è spesso assai più breve rispetto a quello delle persone che muoiono verso i 70 anni. Un farmaco contro l’invecchiamento che funzioni dovrebbe imitare lo stesso effetto, anziché limitarsi a prolungare la vita a spese di salute e benessere, dice Olshansky.

Ma fino a poco tempo fa i ricercatori si sono trovati di fronte a un formidabile ostacolo che ha impedito di sviluppare questa specie di farmaci: la Food and Drug Administration degli Stati Uniti non ha ritenuto di considerare l’invecchiamento una malattia. Di conseguenza non approverà nessun farmaco mirato a bloccare il processo di invecchiamento di per sé.

Dal punto di vista dell’agenzia questa scelta aveva un senso: non c’è un modo obiettivo per misurare l’invecchiamento. Nessuna analisi del sangue, per esempio, può determinare se una persona sta invecchiando più rapidamente o più lentamente del normale: e quindi come potremmo sapere se un farmaco anti-invecchiamento sta funzionando? Questa presa di posizione ufficiale ha eliminato qua lunque incentivo per le case farmaceutiche a investire in ricerche sull’invecchiamento e sui farmaci che potrebbero rallentarlo. Non esisteva praticamente alcun percorso per l’approvazione e la commercializzazione.

La nebbia ha iniziato a diradarsi nel 2015, quando la FDA ha dato il via libera a un trial clinico per valutare le proprietà anti-invecchiamento della metformina. Approvata nel Regno Unito negli anni cinquanta per il diabete di tipo 2 (la forma di diabete più comune), la metformina aveva superato la revisione della Food and Drug Administration degli Stati Uniti nel 1994. Disponibile ora come farmaco generico economico, la metformina è una delle medicine più prescritte al mondo, al punto che l’Organizzazione mondiale della Sanità l’ha dichiarata farmaco «essenziale». La metformina aumenta la sensibilità delle cellule nei confronti dell’insulina, l’ormone che segnala alle cellule che è giunto il momento di assumere zucchero (glucosio) dal sangue.

Poiché il farmaco è assunto da un numero molto elevato di persone, i ricercatori sono riusciti a individuare vie biochimiche interessanti nei pazienti. In particolare, alcuni studi epidemiologici hanno scoperto che le persone in trattamento con metformina sembrano manifestare un’incidenza di tumori inferiore rispetto agli altri. Altri studi hanno suggerito che la metformina potrebbe avere effetti cardiovascolari benefici.

Per di più, mentre le persone con diabete generalmente perdono da cinque a sette anni di speranza di vita, un’analisi del 2014 su dati di pazienti britannici ha scoperto che i diabetici più anziani che assumevano metformina vivevano il 15 per cento più a lungo delle controparti non diabetiche che rappresentavano il gruppo di controllo. Questi pazienti vivevano più a lungo anche rispetto ai diabetici che usavano un’altra classe comune di farmaci, le sulfoniluree, il che indica che era proprio la metformina, e non semplicemente il controllo del diabete, a conferire un vantaggio in termini di longevità.

Come funzioni esattamente la cosa non è del tutto chiaro. Il meccanismo con cui agisce la metformina, che è derivata da un antico rimedio erboristico chiamato lillà francese, o ruta delle capre, ha suscitato discussioni fra gli scienziati per decenni. Una delle sue azioni note è la capacità di attivare la via dell’AMPK, con una serie di modifiche metaboliche favorevoli. Sembra anche che la metformina abbia un effetto sull’insulina attraverso altre vie biochimiche e che addirittura inibisca in qualche modo mTOR. La possibilità che la metformina sia in grado di aumentare la longevità ha attratto l’attenzione, tra gli altri, di Nir Barzilai.

In qualità di responsabile di un importante studio sugli ebrei askenaziti centenari, Barzilai sapeva che le persone che vivono a lungo sviluppano raramente problemi relativi a elevata glicemia o diabete; l’elaborazione ultra efficiente del glucosio ematico, infatti, è un marcatore di longevità. La metformina, così ritiene Barzilai, potrebbe alterare il nostro metabolismo fino a farlo somigliare molto a quello di un centenario.

«Gran parte della sua attività antidiabetica è anche anti-invecchiamento, dal momento che aumenta la funzionalità cellulare e la sensibilità all’insulina», spiega Barzilai. Il ricercatore, in effetti, assume egli stesso il farmaco come misura preventiva, dato che entrambi i suoi genitori erano malati di diabete. Arriva a un passo dall’affermare che chiunque abbia più di 50 anni dovrebbe pensare di farsi prescrivere questo farmaco (lui ha 60 anni). «Sembra un superfarmaco», dice Barzilai. «Sembra coinvolto in molti fattori collegati all’invecchiamento».

«Ci sono sessant’anni di dati sugli esseri umani che dimostrado no che la metformina agisce su un gran numero di condizioni che, considerate nel complesso, fanno pensare che agisca sui processi fondamentali dell’invecchiamento», concorda James L. Kirkland, direttore del Robert and Arlene Kogod Center for Aging Research della Mayo Clinic e collaboratore negli studi sulla metformina.

Ma c’è un altro ostacolo che i ricercatori devono affrontare prima di poter sperimentare farmaci contro l’invecchiamento su soggetti umani: il tempo. Uno studio tradizionale sulla durata della vita richiederebbe decenni per essere completato: letteralmente, una vita intera. Un trial approvato nel 2015 e chiamato TAME (Targeting Aging with Metformine, colpire l’invecchiamento con la metformina) adotta un approccio differente. Invece di limitarsi a confrontare la longevità tra le persone in piena salute che assumono il farmaco e quelle che non lo assumono, gli scienziati esamineranno la progressione delle malattie correlate all’età in ciascun partecipante.

Uno dei segnali distintivi dell’invecchiamento è il modo in cui spesso le persone più anziane sviluppano più di una malattia cronica, per esempio ipertensione e diabete, o malattie cardiache e deficit cognitivi. Queste cosiddette comorbidità, cioè il sovrapporsi di una malattia su un’altra, rappresentano una causa importante di sofferenza nelle persone anziane (senza dimenticare che causano anche un aumento nella spesa sanitaria). Nel trial TAME gli scienziati prevedono di somministrare la metformina a pazienti anziani che soffrono già di qualche malattia correlata all’età, per esempio diabete o ipertensione. I volontari saranno monitorati per cinque anni e messi a confronto con un gruppo di controllo che ha accettato di non assumere il farmaco, per vedere se i primi finiscono con lo sviluppare altre malattie correlate all’età oppure no, a una velocità maggiore o minore. Se la metformina sta davvero rallentando il processo di invecchiamento, allora dovrebbe riuscire a evitare la progressione delle comorbidità.

Se il trial TAME avrà successo e la Food and Drug Administration si mostrerà favorevole a validare nuovi farmaci che puntano a rallentare l’invecchiamento, pensa Barzilai, le aziende farmaceutiche incominceranno a muoversi in questo campo. E non solo le compagnie farmaceutiche tradizionali, ma anche nuove realtà come il progetto Calico di Google, dove Cyinthia Kenyon, che scoprì il gene dell’invecchiamento DAF-16 vent’anni fa, è vice presidente del reparto ricerche sulla longevità. Secondo alcuni osservatori la Calico starebbe investendo più di un miliardo di dollari nella ricerca di farmaci in grado di allungare la durata della vita in salute: una cifra che si avvicina all’intero budget del National Institute on Aging. «Se la longevità è un effetto collaterale » dell’allungamento degli anni di vita in buone salute, dice Barzilai tra il serio e il faceto, «ce ne scusiamo».

Pillole per le età

Il numero dei potenziali farmaci anti-invecchiamento ha già cominciato ad aumentare. Un altro farmaco contro il diabete chiamato acarbosio, per esempio, ha incrementato in misura significativa la durata della vita in topi di sesso maschile.

Come la metformina, l’acarbosio è già approvato per uso umano, per cui anch’esso potrebbe essere un candidato per un trial clinico contro l’invecchiamento. E un altro farmaco ancora, l’ormone alfa estradiolo, ha dato buoni risultati nello stesso tipo di trial clinici controllati nei quali è stato scoperto l’effetto anti-invecchiamento della rapamicina.

Un gruppo più nuovo e forse addirittura più promettente di farmaci candidati contro l’invecchiamento non agisce sulle vie me taboliche, ma funziona eliminando le cosiddette cellule senescenti che hanno smesso di dividersi ma che non sono ancora morte. Come zombi cellulari, queste cellule restano in loco e secernono piccole proteine, chiamate citochine, che possono danneggiare le cellule circostanti. Kirkland ritiene che la loro vera funzione sia di meccanismo di difesa contro il cancro, un modo con cui l’organismo può uccidere cellule vicine che potrebbero essere maligne. Le cellule senescenti hanno un ruolo anche nella guarigione delle ferite, perché le citochine che producono aiutano a controllare il sistema immunitario. Purtroppo i loro effetti tossici vanno ben al di là delle cellule immediatamente adiacenti, contribuendo all’infiammazione di grado moderato che caratterizza gli organismi che invecchiano, aumentando paradossalmente il rischio di cancro nei tessuti circostanti. Kirkland e altri ritengono che siano un elemento cruciale del processo di invecchiamento.

Peggio ancora, più invecchiamo e più cellule senescenti ospitiamo nel nostro organismo. Che cosa accadrebbe se potessimo sbarazzarcene? Kirkland e i suoi colleghi, fra cui il biologo molecolare Jan van Deursen, della Mayo Clinic, hanno dimostrato che eliminare cellule senescenti da topi geneticamente modificati sembra aumentarne la longevità. Il problema è che è molto difficile individuare le cellule senescenti – sono sparpagliate fra le cellule sane – ed è ancora più difficile ucciderle. «Sono molto resistenti alla morte», dice Kirkland.

Un gruppo di studiosi della Mayo Clinic, dello Scripps Research Institute e di altri istituti scientifici ha cercato farmaci in grado di uccidere le cellule senescenti inducendo l’apoptosi, ovvero il suicidio cellulare. Nel 2015 hanno riferito in un articolo di averne individuati tre: due farmaci anticancro, il dasatinib e il navitoclax, e la quercetina, un flavonoide presente in natura. Quest’ultimo è un composto antiossidante contenente pigmento che si trova in diversi alimenti, fra cui, per esempio, la buccia delle mele e i capperi.

In un esperimento, alcuni animali erano stati sottoposti a radiazioni, redendoli disabili a una zampa a causa dell’atrofia muscolare indotta dal trattamento, simile alla perdita del muscolo causata dall’invecchiamento. Le radiazioni avevano anche prodotto una gran quantità di cellule senescenti nel muscolo, condizione che si osserva anche nei pazienti con tumore, in seguito a radioterapia o chemioterapia. Dopo un breve trattamento con il farmaco la funzionalità della zampa degli animali era stata recuperata quasi completamente, un effetto che Kirkland ritiene si sia manifestato perché il farmaco aveva ucciso più cellule senescenti rispetto agli altri tipi. «Abbiamo somministrato agli animali un’unica dose di farmaco, e la loro resistenza sul tapis-roulant è aumentata considerevolmente, inoltre è rimasta tale per diversi mesi», afferma Kirkland. «Questo ci dà la garanzia che il farmaco elimini effettivamente le cellule senescenti. E una volta che sono morte, sono morte».

Forse queste cellule devono morire perché noi si possa vivere.

Testo di Bill Gifford, pubblicato in "Le Scienze", edizione italiana di Scientific American, Italia,N. 579, novembre 2016, estratti pp.73-79. Digitalizzati, adattato e illustrato per Leopoldo Costa

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