10.26.2011

STORIA DELL' ALIMENTAZIONE IN EUROPA E IN ITALIA


La storia della nostra alimentazione è parte significativa della nostra storia complessiva; l’economia e la politica, la cultura nel senso più ampio del termine, la salute, sono tutti aspetti che hanno un rapporto diretto e privilegiato con  i problemi dell’alimentazione. Intanto perché la sopravvivenza quotidiana è il primo bisogno dell’uomo, anche se non si vive di solo pane. E poi il cibo è anche piacere e tra questi due termini si snoda una storia complessa e spesso drammatica, fortemente condizionata dai rapporti di potere e dalle sperequazioni sociali. Una storia di fame e di abbondanza, ma anche di immaginario collettivo, di piccoli e grandi scambi commerciali e culturali con paesi vicini o lontanissimi; una storia spesso trasversale e dove gli avanzi di cibo dei ricchi diventano, tra le abili mani di cuochi-servi,  piatti meravigliosi che ritornano sulle tavole dei ricchi, oppure i piatti più poveri e “rimediati” in qualche modo divengono prelibatezze e simboli di un intero popolo.  In questo piccolo angolo proporremo anche alcune ricette esemplificative e talvolta “storiche”, per quanto le fonti non siano sempre chiare e dettagliate e ovviamente lo faremo interpretando testi antichi e documenti più o meno simili a ricettari, in chiave attuale e personale. In alcuni casi non sarà difficile poiché, dalla scoperta del fuoco, dalla coltivazione dei cereali e dall’uso delle pentole, molti piatti, che ci sono noti, sono rimasti sostanzialmente invariati nel corso dei secoli; ad esempio gli spiedi, gli arrosti e le grigliate  rimangono tutt’ora piatti molto apprezzati. E così pure il pane condito con l’olio e qualche altro ingrediente. Lo stesso si può dire di molte minestre di verdure e cereali, talvolta  arrricchite da carne o da pesce; di molte verdure bollite e via dicendo. Paradossalmente invece, ad esempio, scopriremo che la pasta, vero vanto nazionale, è un’acquisizione molto recente della nostra gastronomia,se intesa come piatto importante e diffuso.

L’eredità greco-romana, il cristianesimo e i barbari

La natura incolta non era particolarmente apprezzata nel mondo greco classico e poi latino.
La civiltà era proprio la capacità dell’uomo di regolarla la natura, di creare un ordine artificiale e umano, cittadino o meglio al servizio della civitas. Grande priorità quindi alle coltivazioni agricole, all’arboricoltura.
L’allevamento di ovini è un’attività marginale legata soprattutto alla produzione di latte e formaggio e di lana; i maiali vivono sostanzialmente allo stato brado. La caccia è un’attività riservata a nobili e guerrieri; talvolta a popolazioni emarginate. La pesca è attività legata solo alle zone costiere. Non c’è pagina di autore antico che non parli e citi in continuazione il grano, l’ulivo e la vite come una triade di valori culturali, simbolici, ma al tempo stesso produttivi ed economici. Da le Metamorfosi di  Ovidio …“ ogni cosa che le mie figlie toccavano si trasformava in grano, o in vino puro o in oliva” dice Anio, re e sacerdote di Delo.. e Plutarco racconta che i giovani ateniesi ormai adulti giuravano fedeltà alla patria “ quella in cui crescono il grano, la vite e l’ulivo”.
Le piante come simbolo di civiltà; prima “la fertile terra che nutre spontaneamente con i suoi frutti gli uomini”, nel paradiso come nella mitologia;  poi la terra che nutre grazie al lavoro dell’uomo.
Certo quei popoli, compresi in un area che oggi definiamo mediterranea, mangiavano molto altro, ma non si tratta di capire cosa c’era o non c’era, cosa piaceva di più o di meno.  Vogliamo ricordare, ancora una volta che, fino al dopoguerra e quindi per tutta la nostra storia la fame è un elemento che accompagna la  stragrande maggioranza della popolazione italiana ed europea…… Si tratta di capire il ruolo, l’importanza, il peso che compete ai diversi prodotti alimentari. In qualche modo il mondo “classico” ci lascia mangiatori di pane (come racconta Omero) e consumatori di olio d’oliva, un poco di formaggio e ricotta, prodotti dell’orto, raramente mangiatori di carni ovine o di cacciagione e bevitori di vino, una sorta di dieta mediterramea ante litteram. Il pasto principale era quello serale, che si consumava insieme, e da qui la parola coeva che si trasformerà in cena. Durante il giorno il lavoro o in guerra si consumano pasti rapidi lontano da casa a base di pane secco, formaggio, zuppe, verdure crude, frutti, miele. Niente di nuovo sotto il sole!

Il pane (e il vino) di Dio

Nel IV secolo la religione cristiana si afferma come culto ufficiale dell’impero e si diffonderà rapidamente in gran parte dell’Europa, soprattutto grazie al monachesimo e alla conversione di molte popolazioni “ barbare”. Dal nostro punto di vista il cristianesimo, nato e sviluppatosi nell’area mediterranea, non aveva certo tardato ad assumere come propri simboli alimentari che erano di quella cultura e di quei luoghi, diventando testimone ed erede della cultura greco romana più di quanto non fosse di quella ebraica. Il pane e il vino, assunti in questa veste dopo non poche controversie (sia il pane lievitato che il vino fermentato sono prodotti impuri nella cultura ebraica) divengono elementi fondamentali della liturgia. Anche l’olio entra in gioco con l’unzione dei malati, la somministrazione dei sacramenti, l’illuminazione dei luoghi sacri. Oppure si potrebbe dire il contrario e cioè che la cultura classica romana, così prestigiosa e consolidata, improntò di sé molti aspetti della nuova religione. Un forte elemento di rottura culturale è invece legato all’atteggiamento complessivo nei confronti del cibo. Per la cultura greca e romana l’ideale supremo è soprattutto la misura, l’equilibrio virtuoso: accostarsi al cibo con rispetto e piacere ma senza voracità, offrirlo agli altri ma senza ostentazione.  Certo il fondamentalismo cristiano di molti secoli fa, la negazione della vita terrena e le molte regole di digiuno previste, in particolare quella di non mangiare la carne in moltissime occasioni, si allontanano decisamente non solo dall’ideale di equilibrio ma anche da una corretta alimentazione e dal piacere della tavola.

I Barbari

Lorem E’ ancora più evidente se pensiamo che proprio in quei secoli le invasioni barbariche propongono modelli alimentari completamente nuovi ed in antitesi con quelli classici e con quelli religiosi.
I “barbari a tavola” non sono certo misurati e neppure cristianamente temperati; sono anzi divoratori di carni, grandi mangiatori e bevitori.  In tutta la letteratura classica greca e soprattutto romana e in molti testi “storici” i barbari  sono raccontati in tale modo; in fondo la cultura celtica e germanica propone ed esalta il grande mangiatore, come persona che attraverso tale comportamento esprime una superiorità, una forza e una vitalità straordinaria e prettamente animalesca. Una piccola citazione giusto per capire meglio la questione: quando Carlo Magno si accorge che uno dei suoi commensali ha bestialmente spolpato e sminuzzato una quantità enorme di carne, succhiandone il midollo e facendo un grosso mucchio di ossa sotto il tavolo, non esita a riconoscere i tratti di un “fortissimo soldato” e a identificarlo come Adelchi, figlio del re dei Longobardi, il quale, “mangiava come un leone". Aristofane e molti altri autori della Grecia classica in fondo avevano ragione: “ i barbari ti credono uomo solo se sei capace di mangiare una montagna”.
E possiamo aggiungere anche di bere un fiume di birra, o per meglio dire di cervogia, una bevanda a base di cereali fermentati ancora molto torbida e densa, lontana qualche secolo dalla birra limpida e fresca che conosciamo oggi e che fu perfezionata soltanto ben oltre l’anno Mille. I barbari si identificano con divinità animali cone orsi e lupi e venerano il maiale; sono spesso popolazioni semi-nomadi e sfruttano il bosco e la selvaggina. Consumano molto latte e yogurt. Anche in questo caso non è sempre assolutamente così; è noto, per esempio, che lungo il Reno il vino è conosciuto e apprezzato e che anche le popolazione del Nord consumano zuppe a base di cereali. Certo lo scontro tra digiuno e abbufata, tra pane e carne, tra vino e birra, tra agricoltura e bosco rimane. Le pagine scritte da Eginardo, biografo di Carlo Magno sono illuminanti: doveva essere morigerato nel mangiare e nel bere come principe cristiano..somigliare al racconto che di Augusto fa Svetonio… ma non riusciva, soprattutto nel mangiare e il suo menu di base era composto di sole quattro portate (e il contrasto tra quattro portate e solo è significativo).. naturalmente e soprattutto perché le carni semplicemente arrostite non erano incluse nel conto…. Carlo Magno soffrì di gotta, come molti allora, e anche allora rifiutò di ascoltare i medici che gli consigliavano di non mangiare carne arrosto, ma bollita (come ci è oggi noto le cose non sarebbero migliorate). Questione di gusto, ma certo la carne arrostita sul fuoco si sposa con nozioni antropologiche o almeno culturali diverse da quelle del cibo cotto in una pentola di acqua bollente…

Le ragioni del potere, il pane quotidiano, il mangiare di magro

Non vogliamo sviluppare temi economici o sociologici ma certamente l’organizzazione politica ed economica dell’Europa da Carlo Magno e sino a tutto il Settecento diventa via via sempre più legata alle attività agricole. I boschi lentamente ma inesorabilmente si riducono, a favore di terreni agricoli molto più produttivi, più capaci di sfamare un maggior numero di persone e quindi di rispondere allo sviluppo demografico, seppure questo estremamente limitato da carestie e epidemie; ma soprattutto capace di produrre più reddito e ricchezza. Inoltre il territorio agricolo come quello boschivo è fortemente soggetto all’appropriazione e al controllo dai potenti locali, i signori della guerra ed il clero, in molti casi entrambi concentrati in un' unica persona o famiglia. I contadini sono ridotti in larga misura a proletariato agricolo che, nella migliore delle ipotesi, “godono” della possibilità di conservare una parte del raccolto e di sfruttare piccole aree a “orto”; il divieto di sfruttare i pascoli liberi ed i boschi diviene anche divieto di caccia, duramente sanzionato.
Nel corso di pochi secoli l’alimentazione della maggioranza della popolazione europea diventa sostanzialmente vegetariana, basata sul consumo di cereali e prodotti derivati come il pane, la verdura, e, raramente, la carne. La carne fresca e la selvaggina divengono nuovamente privilegio dei forti, dei signori.
 
Dacci oggi il nostro pane….

La nascita di signorie, ma anche di quelle realtà comunali che regolano la vita cittadina ma anche quella delle campagne circostanti e legiferano in tal senso, spesso trasformando terreni comuni in terreni del comune, gli scambi commerciali legati alle materie prine facilmente conservabili sono ulteriori elementi da considerare per comprendere quanto il pane divenga fondamentale nell’alimentazione europea. Il resto diviene quasi alimento accessorio; è significativo che intorno al Mille si diffonde il termine companatico. Certo non bisogna pensare al pane di grano, al pane bianco che oggi conosciamo. Quello è un prodotto di estremo lusso.
E’ certo che il pane viene prodotto impastando davvero di tutto; grano in rari casi, solo per i ricchi ma soprattutto miglio, segale, avena, farina di castagne e nei periodi di forte carestia e fame persino con erbe essiccate,  leguminose e peggio… Nel contempo il commercio e l’accumulo di ricchezze, l’organizzazione degli stati o dei comuni e quindi, ad esempio, il pagamento delle tasse sono elementi che concorrono allo sviluppo delle grandi città, nelle quali si raccolgono certamente migliaia di poveri in cerca di lavoro e fortuna, ma dove vivono piuttosto agiatamente un sempre maggior numero di persone; i “nobili”, la nuova borghesia, commercianti e artigiani, il clero.

Gastronomia e fame

In una condizione migliore, anche se lo diciamo con molta cautela, accade che i ricchi spostino la soglia della distinzione sociale, dei bisogni o dei desideri molto più in alto. I commerci hanno portato in Europa grandi quantità di spezie, particolarmente apprezzate, ricercate e costose. Una vera e propria “follia delle spezie”, come è stato  scritto da importanti storici. Le grandi corti e la nuova classe sociale borghese sono più attente nel ricercare il lusso, il piacere e la bellezza anche a tavola. Nasce una nuova attenzione nei confronti del cibo; l’ultimo vero trattato di gastronomia, in qualche modo significativo, è ancora quello di Apicio. E’ a partire dal XIII sec. che in Europa si comincia a scrivere dettagliatamente di gastronomia; certo è mescolata alla medicina, alla farmacologia, alla gestione della casa patrizia e si confonde in mezzo a altri trattati. Non possiamo pensare ai ricettari di oggi, ma la letteratura gastronomica sta nascendo e molti manuali sono indirizzati al personale di servizio “direttivo”.  Si racconta del cibo, e dei pranzi anche nei primi libri di racconti storico-fantastici e in molte novelle. Una novità assoluta è rappresentata dalle torte; ovviamente non le torte che immaginiamo oggi, ma piuttosto qualcosa di simile ai pie anglosassoni, alle quiche francesi o alle torte salate nostrane, tipo erbazzone o torta pasqualina. Una sorta di pasta non ben precisata che racchiude ingredienti vari, in genere già cotti, finemente pestati e ben conditi . Parallelamente a tutto ciò ed è necessario ripetersi, esiste una realtà molto più dura: in particolari momenti della storia dell Europa lo stress alimentare, le terribili condizioni igieniche, le guerre e le devastanti epidemie di peste portarono il nostro Continente a una perdita di vite umane, tra il 1347 e il 1351, che non è difficile calcolare in più di un quarto della popolazione di allora; si tratta di milioni di morti. Le epidemie di peste si ripeteranno una trentina di volte sino ala metà del Seicento.  Tragedie del genere e la conseguente penuria di manodopera poteva portare spesso a veri e propri cambiamenti di stili alimentari e quindi, anche se oggi ci sembra paradossale, ad un maggior consumo di carne e pesce rispetto al fondamentale pane. Ovviamente poi le cose migliorano, e numerosi documenti testimoniano di condizioni di vita accettabili per ampi strati della popolazione in diverse città italiane quali ad esempio Parma e Piacenza già ben prima della fine del XIV secolo.

Mangiare di magro e mangiare pesce

In questa situazione dobbiamo nuovamente soffermarci sull’influenza delle normative ecclesiastiche imposte.
Quanto esse abbiano a che fare con la fede non lo sappiamo.  Certamente la pratica del digiuno o dell’astensione dal consumo di carne ci sono note ancora oggi; considerazioni di natura penitenziale, di negazione del piacere della tavola (la gola è un peccato), l’eredità greco romana della misura e del consumo di vegetali, l’idea che un forte consumo di carne sia legato a concezioni e pratiche di vita “pagane” (il sacrificio di animali e la loro uccisione e consumo pubblico) e inoltre collegato ad una successiva o parallela notevole sessualità  (altro terribile peccato per il perfetto cristiano).
Infine una singolare opinione pseudo-scientifica e fortemente classista, secondo la quale alcuni cibi (la carne appunto) potesse essere molto dannosa per le classi sociali inferiori, meglio adatte al consumo di cibi ai quali erano “naturalmente” abituati. Di fatto i giorni di digiuno sono almeno uno alla settimana mentre i giorni di astensione dal consumo di carne sono più di cento all’anno (tutti i Venerdì, i 40 giorni di Quaresima che prrecedono la Pasqua e alcuni altri secondo le differenti regole in vigore nelle diverse comunità ).  Si sviluppa quindi un certo consumo di cibi paralleli alla carne, quali uova, formaggio e pesce, sia di mare che di acqua dolce, considerato in assoluto un cibo magro, sebbene quest’ultimo impieghi qualche secolo per essere tollerato come tale. E’ importante soprattutto perché, se escludiamo le zone costiere, l’attività di pesca è quasi inesistente e così pure il consumo : nei paesi del Nord Europa , pure ricchissimo di pesce di mare, di lago e di fiume, nel periodo che va dalla caduta dell’Impero Romano e sino al IX-X sec è noto da diverse documenti che la pesca è sostanzialmente sconosciuta. E’ ovvio che un prodotto così deperibile e difficilmente trasportabile presenta oggettivamente dei forti limiti alla sua commercializzazione e al suo consumo di massa. I metodi di conservazione, quali la salagione e l’essicazione favoriranno l’incremento di tale consumo. Soltanto dalla fine del Quattrocento possiamo affermare che il pesce diventa un prodotto importante. Al consumo locale o a quello di alcune specie di acqua dolce particolarmente abbondanti in Europa come ad esempio lo storione, la carpa, il luccio, le trote o a quello delle aringhe salate, consumate abbondantemente nel Nord Europa,  si affianca prepotentemente il commercio ed il consumo del merluzzo, che si trova in quantità inesauribili nei mari del Nord. Si scatenò allora una vera e propria guerra  commerciale e non solo per lo sfruttamento dei mari, alla quale parteciparono tutte le flotte principali; portoghesi, inglesi, francesi, olandesi e baschi. I merluzzi, selezionati, salati (il baccalà) o essiccati (lo stoccafisso) diventarono una presenza costante nei mercati di tutta l’Europa, soprattutto per il consumo dei ceti popolari cittadini. Ancora nel primo dopoguerra, In Italia, si acquistavano tali prodotti quasi con un sentimento di vergogna, legato alla propria misera condizione economica.  Ciò nonostante il consumo di pesce rimarrà per molti secoli poco significativo, a causa dei limiti oggettivi sinora raccontati, ma anche per una connotazione cultural- popolare negativa. Quello conservato richiama una condizione di povertà economica e subalternità sociale; quello fresco a una immagine di ricchezza poco invidiabile, perché il pesce è un alimento “leggero” che non sazia come la carne ed è un alimento “quaresimale”, che può essere pienamente goduto soltanto da chi può consumare anche e facilmente la carne o comunque non deve fare i conti con la fame quotidiana. Certo il pesce è e sarà molto consumato; ma rimane un cibo poco apprezzato, subalterno e quasi succedaneo della carne.

La cucina di corte e quella popolare

La scelta della tipologia dei cibi da consumare e privilegiare rispetto ad altri, l’elaborazione di veri e propri trattati di usi e costumi a tavola, che certamente comprendono anche ricettari, sono tutti elementi che indicano in maniera definitiva come la cultura del potere sia anche cultura del cibo. Non si tratta più ormai del potere della forza bruta e guerriera, si tratta di forme raffinate di esibizione, legate alle capacità diplomatiche, amministrative, commerciali. L’esibizione della forza avviene anche a tavola, ma non si tratta più di voracità individuale,  piuttosto di un insieme di regole, di organizzazione dell’evento, di sfarzo coreografico, di eleganza della tavola, di ricchezza e varietà di prodotti ricercati e rari, mostrati in “bellavista”. L’area del privilegio sociale, del potere politico, della ricchezza si esplicita anche a tavola. Fra le tante cronache dell’epoca ecco quella relativa al matrimonio tra Isabella d’Este e Annibale Bentivoglio, organizzato nel 1487 a Bologna e raccontato dal cronista dell’epoca Ghirarducci…. “Prima che fossero presentate avanti (le vivande)… erano portate con grandissimo onore intorno alla piazza del palazzo, per farne mostra al popolo, affinché esso vedesse tanta magnificenza. Durò sette ore, dalle 20 alle 3 del mattino durante le quali furono serviti: piccoli antipasti e cialde con vini dolcissimi, piccioni arrosto, fegatelli, tordi e pernici con “ulive confette et uva” e pane ed un castello di zucchero “ con li merli e torri artificiosamente composto”, pieno di uccelli vivi, che appena il piatto fu recato in sala vennero liberati, con “gran diletto et piacere de convitati” .. e poi ancora salsicce e lonze arrosto e capponi e teste di vitello lesse con “minestre et sapori” (cioè salse) .. e fagiani dai cui becchi uscivano fiamme e pavoni “con loro ruota di piume che sembravano vivi” e ancora carni e poi giuncate (ricotte) e torte e biscotti e infine, prima che gli ospiti se ne andassero, (ma sarebbero tornati il mattino seguente) confetti speziati.” Non tutti consumavano tutto, ovviamente. I piatti preparati venivano portati in sala a gruppi, prima in sfilata davanti ai tavoli e poi appoggiati su qualche tavolo e li lasciati…. Gli ospiti sceglievano quello che preferivano ma soprattutto rimanevano abbagliati da tanta magnificenza: mostrare sembrava ormai la parola chiave. Per gli altri rimane la fame e la paura… e se non c’è il cibo che ci rimanga almeno il desiderio, il sogno… dell’abbondanza, dell’abbuffata, il sogno di Bengodi, del paese di Cuccagna, del Carnevale che sconfigge la Quaresima. Ecco come, nella famosa novella del Boccaccio, le meraviglie del paese di Bengodi, vengono raccontate da Maso al povero Calandrino “ eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra le quali stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di cappone, e poi li gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva….. Certo tali racconti comprendono il sogno di una sessualità più libera, di un abbigliamento lussuoso, di denaro in oro sonante, ma il cibo è presente con un ruolo importante. E’ terribile pensare, e non molto sembra cambiato, che la cultura dello spreco è dialettica rispetto a quella della fame. E non si tratta di una contraddizione, quella tra abbondanza e scarsità, di natura biologia e antropologica, nel senso che l’uomo è naturalmente abituato a mangiare molto o poco, a seconda degli eventi, della sua capacità di cacciare o comunque di procurarsi del cibo; neanche psicologica o culturale, nel senso che mangiare molto fa davvero male (fatto peraltro assolutamente vero). Le immagini di povertà felice o lieta frugalità le possiamo tranquillamente lasciare alla saggezza o alla fantasia di pochi e all’interesse di molti. Mangiare poco fa bene a chi (può) mangiare molto!!! Solo una solida e prolungata esperienza di pancia piena può accettare il sacrificio di una  dieta.

La riforma e le due Europe, il nuovo mondo

La riforma luterana divide ormai definitivamente l’Europa del Nord da quella del Sud, almeno culturalmente, ma si ripercuote anche nelle abitudini alimentari.  Tra i tanti temi di polemica contro la Chiesa di Roma, falsa e corrotta, non possono mancare forti accenti sui comportamenti privati e sul modo di nutrirsi;  “ come il Padre dice alla sua famiglia "Siate solleciti della mia volontà", quanto al resto mangiate, bevete e vestitevi come vi pare, perché Dio non si cura di come mangiamo e ci vestiamo”. In questo quadro si nega il valore del digiuno, del divieto di mangiare carne, delle varie quaresime e degli indulti a pagamento che consentivano di evitare tutte queste regole. Basta con la volontà della chiesa di controllare tutti i comportamenti di ogni singolo individuo. Il consumo di carme aumenta a dismisura, crolla il consumo di pesce di acqua dolce, si incrementa notevolmente il consumo di alcol, birra in particolare e il burro comincia a sostituire il lardo e l’olio in molte preparazioni gastronomiche (anche perché consumare molta carne significa allevare molto bestiame). In tutta Europa si comincia a ridurre notevolmente l’uso delle spezie; forse in questo caso gioca un forte desiderio di distinzione. Quando un prodotto diviene di facile reperibilità e di largo consumo, per le elite arriva il momento di cambiare: sembra che, per la prima volta, ci si possa compiacere di utilizzare prodotti locali e sostanzialmente “poveri”, elemento che nei nostri giorni è considerato un obbligo della grande cucina, visto che tutti parlano di cucina del territorio, valorizzazione dei prodotti del territorio, ecc. ecc. Altro ingrediente importante è lo zucchero, che in forme sempre più raffinate, invade le tavole dei ricchi e viene inizialmente utilizzato in moltissime preparazioni gastronomiche, sia salate che dolci, senza alcuna distinzione. E come sempre accade prima è considerato quasi una medicina, poi comincia a essere consumato dalle elite e infine diviene un alimento conosciuto e apprezzato da molti. Dalla cucina delle spezie si passa alla cucina dei condimenti o se preferite delle salse. E’ la storia del Seicento gastronomico. E come è noto sono i francesi a fare la rivoluzione….. prima in cucina e soltanto molto più tardi alla Bastiglia. Paradossalmente la più grande “scoperta” del Cinquecento, quella dell America, (per la precisione Ottobre 1492) impiegherà moltissimo ad incidere sulle tavole del Vecchio Continente; il mais o le patate, i fagioli, i  pomodori, il tacchino, la cioccolata e poi il cioccolato per citarne alcuni sono prodotti di tale ampio consumo e di tale notorietà da far pensare a tutti  che siano stati accettati e impiegati rapidamente, anche perché di facile e redditizia coltivazione o allevamento e di facile utilizzo. In realtà non fu assolutamente così e quasi tutti i cibi “americani” si affermarono con difficoltà e lentezza e, ancora una volta, a causa della fame.

Il mais e la patata

Le storie del mais e della patata sono esemplari. Portato in Europa già nei primi viaggi di ritorno dalle Americhe da Colombo il mais impiegherà alcuni decenni per essere coltivato con una certa “attenzione”.
Certo a livello di piccola produzione locale, da “orto”, il mais si inserisce in pochi decenni nelle campagne di tutti i paesi dell’Europa. E’ un cereale che in questo modo coltivato si sottrae alla logica  della tassazione, delle decime,  e del controllo dei latifondisti con i loro canoni fondiari.
Ma il  mais è molto redditizio e può sfamare a basso costo un’ampia fascia della popolazione; poco importa se la pellagra sarà una delle peggiori disgrazie di intere aree geografiche, come ad esempio nel Nord-Est d’Italia, la fame è sempre alle porte. Seppure molto lentamente il mais, chiamato in tanti modi diversi in tutta Europa e persino con nomi esotici (in Italia è detto ancora oggi grano turco anche se la Turchia non c’entra affatto|) si afferma o si affianca agli altri cereali. Stessa sorte, ma ancora più dilatata nel tempo spetta alla patata, conosciuta dagli spagnoli in Perù nel 1539. E’ coltivata in Spagna verso la fine del Cinquecento e arriva anche in Italia, dove sembra essere piuttosto apprezzata. Arriva in Inghilterra e quindi in Irlanda soltanto nel 1588, direttamente dalla America. Ma anche per questo straordinario tubero bisognerà aspettare la fine del Settecento per attestarne il definitivo successo e il suo impatto sullo stile alimentare degli europei. Ogni volta si tratta di riconoscerne le qualità, selezionarne le tipologie, coltivarle e renderle colture produttive, accettarle anche culturalmente come importanti fonti di nutrimento, imparare a trasformarle, a cucinarle, a renderle appetibili.

Alcol e nuove bevande

Nei secoli scorsi il consumo di alcolici, in particolare birra e vino, nelle diverse regioni d’Europa, raggiungeva livelli altissimi, molto più elevati di oggi, nonostante l’alcolismo o comunque l’abuso di alcol rappresenti una vera tragedia sociale. E’ difficile stabilire una media per ogni nazione e per ogni periodo storico ma alcuni dato certi, ricavati da fonti assolutamente certe sembrano davvero incredibile. Nel XVI sec. in Inghilterra è certo che si consumavano più di tre litri di birra al giorno pro capite (inclusi i bambini e le donne). Un secolo prima in Svezia si consumava pro capite 30 volte più birra di quanta non se ne consumi oggi. E’ ovvio che oggi si possono consumare probabilmente molti più prodotti alcolici, intendiamo in termini di varietà, ma il dato rimane impressionante. A spiegare tutta questa sete “oceanica” concorrono probabilmente molti  fattori: il largo consumo di alimenti conservati sotto sale come carne, pesce, formaggi; la pessima qualità dell’acqua potabile e il desiderio di “correggerla”; la qualità alimentare di tali bevande, capaci di apportare una quantità importante di calorie in modo facile e immediato; l’attribuzione, ai quei tempi, di virtù terapeutiche, almeno al vino e ad alcuni distillati. Inoltre non possiamo non soffermarci sul piacere intrinseco del consumo di alcol, inteso come forma di evasione e spesso di aggregazione sociale. Fin dall’antichità in Italia e in tutta Europa è facile imbattersi in fenomeni di ubriachezza sacra, legata ai culti pagani fortemente praticati in ambito greco-latino e celtico-germanico. La dimensione religiosa si è perduta, ma il carattere sociale e le occasioni di consumo di bevande alcoliche resta. Il fenomeno dell’ubriachezza sociale e poi individuale è una questione ancora oggi drammaticamente aperta per le conseguenze terribili che determina, ma da un punto di vista culturale e antropologico rimane legata al desiderio umano di “uscire da sé”; qualcosa come un viaggio estatico verso dimensioni e orizzonti sconosciuti. Il consumo di bevande alcoliche passa fin troppo facilmente la soglia tra il piacere del consumo di un alimento e una sorta di tossicodipendenza. Ad affiancare il vino e la birra giungono dal mondo nuove bevande, che seguendo percorsi commerciali differenti, si affermano in maniera straordinaria e persino imprevedibile. Il caffè inizia il suo viaggio in Etiopia. E’ famosa la favola del pastore di capre e pecore che nota che quelle che mangiano le bacche della pianta del caffè sono più produttive e felici e si incuriosisce…..
Nel XIII e XIV sec. la coltivazione di caffè vive i suoi esordi nel sud della penisola arabica, dove i semi tostati, secondo la tradizione araba, venivano in qualche modo sfruttati per prolungare le veglie mistiche. In ogni caso attraverso l’Egitto e poi l’impero turco il caffè ormai trasformato in bevanda, peraltro piuttosot forte e amara, raggiunge l’Europa soprattutto per iniziativa dei mercanti veneziani. Forse il primo caffè si berrà proprio a Venezia….Ma la fortuna del caffè si giocò a Parigi dove sembra giunse nel 1643. Nella seconda metà del Seicento il caffè è già diffuso in tutta la città. Il primo bar caffetteria , le Procope, è aperto nel 1686 dall’italiano Procopio Coltelli, già garzone di bottega di un armeno. A Londra la prima caffetteria fu aperta nel 1687 in Tower street e già nel 1700 esistevano 3000 locali nei quali poter degustare caffè. Ma in Inghilterra come pure in Olanda, il caffè fu presto sostituito dal tè: e potremmo dire potenza della Compagnia delle Indie!!!… massimo importatore di tè e capace di  determinare i consumi alimentari di interi popoli. Nel 1610 il primo carico di tè giunge ad Amsterdam dalle indie: l’antica bevanda cinese si diffonde prima in Olanda  e poi in Francia; oltrepassa la Manica solo dopo il 1650 ma come abbiamo detto diventa presto, ma non in maniera disinteressata o casuale, una sorta di bevanda nazionale, a fianco della birra e in seguito del gin (e anche in questo ultimo caso i rapporti dinastici e commerciali tra Olanda e Inghilterra giocano un fattore determinante). Il caffè è una bevanda che si inserisce perfettamente nella cultura e nello spirito illuministico del Settecento, per la sua capacità di mantenere svegli, brillanti e lucidi, a differenza del’alcol. I caffè, intesi come locali, sono piacevoli ambienti di incontro della borghesia illuminata e luoghi privilegiati di conversazioni brillanti. La cultura borghese, produttiva e laboriosa, trova nel caffè e nel tè alleati utili per contrastare l’eccesso nel consumo di alcol di ampie fasce di artigiani e lavoratori. Nei paesi meridionali dell’Europa, come la Spagna e l’Italia, seppure con il solito ritardo, si afferma anche il consumo della cioccolata; sono in particolare i gesuiti a diffonderne il consumo, soprattutto come bevanda di magro, particolarmente ambita per le sue capacità nutritive. Il consumo di tale bevanda rimase però molto elitario e tale immagine fu talmente forte da rendere la cioccolata in tazza una sorta di bevanda-simbolo della mollezza e dell’oziosità degli aristocratici, una bevanda per donne.

La pasta: una storia ancora da scrivere?

In un'area circoscritta dell'Italia meridionale, inizialmente in Sicila, a cominciare dal XII sec. e poi, più diffusamente in Campania e in genere nel Sud e parzialmente in Liguria, si afferma la produzione e il consumo di pasta, prodotto che assolve, dal punto di vista nutrizionale, le funzioni che nelle regioni del Nord vengono svolte, ma non certo con lo stesso valore nutrizionale, da altri cereali e poi dal mais e dalle patate.
Ed è subito necessaria una distinzione tra la pasta "fresca", cioè un impasto di farine e uova o acqua, confezionate, cotte e consumate e la pasta "secca", cioè essicata subito dopo la preparazione, al fine di poterla conservare a lungo. Il primo è un uso alimentare antichissimo,diffuso in molte aree in ogni angolo del mondo. La pasta secca è invece un'acquisizione recente. L'origine sembra araba, anche se tale ipotesi deve essere considerata con cautela, anche perché la nozione di "pasta" sembra estranea alla cultura araba. Certo le prime testimonianze documentate di pasta secca europea ci indicano come luogo di produzione la Sicilia, come noto fortemente influenzata dalla cultura araba.  Anche i vocaboli , itrija in siciliano antico per pasta e tria per grano in arabo sono significativi. Attraverso i commerci liguri la pasta si conosce in tutta Italia, tanto che i trattati gastronomici del Trecento e Quattrocento spesso considerano le ricette di tria (pasta) come "genovesi". Le paste lunghe sono spesso chiamate "vermicelli" mentre le corte o gli altri formati "maccheroni". La produzione di pasta si diffonde in diverse regioni del sud, luoghi di coltivazione di ottime qualità di grano duro e parzialmente in Liguria e poi anche in Provenza, mentre nel Nord la pasta è quella fresca, preparata con grano tenero, acqua e uova. Riuscire a capire quale collocazione abbia la pasta secca nella cultura alimentare italiana di quel periodo e sino a tutto il Settecento non è facile; è un prodotto di lusso o popolare? legato alla necessità di trasportare alimenti conservati e quindi da inserire nell'ambito del cibo della fame oppure cibo elitario da sognare, come nella corposa favola di Bengodi? Certamente la diffusione popolare della pasta secca si può datare intorno agli anni trenta del Seicento, a Napoli, per ragioni legate al calo dei consumi di carne e cavolo, all'incremento demografico, alle nuove tecnologie di produzionme delle farine grazie al torechio meccanico e alla diffusione della gramola. I napoletanio divengono i "mangiamaccheroni". Nell'Italia del Sud  i poveri godranno in fondo di un regime alimentare più ricco dei loro simili del Nord, poichè il grano duro contiene glutine e quindi fornisce un certo apporto proteico, risultando molto più nutriente rispetto ad una dieta basata sul monofagismo di mais e patate, causa di grave denutrizione e terribili malattie. All'inizio dell'Ottocento la pasta è uno street food e si può mangiare in strada, appena condita con formaggio; alla metà del secolo si comincerà a condirla con la salsa di pomodoro, prodotto "americano" destinato a larga e persino eccessiva fortuna nella gastronomia italiana.  Seppure alla fine dell'Ottocento larghe fasce della popolazione del Sud e quindi del resto d'Italia consumavano soltanto marginalmente la pasta , lo stereotipo dell'italiano divoratore di spaghetti e maccaroni si sta già consolidando. Memorabile il film Miseria e nobiltà, con Totò affamato, che mangia spaghetti al pomodoro con le mani, ballando su una tavola imbandita; surreale ma storicamente ineccepibile testimonianza della gastronomia di quel tempo.

La rivoluzione francese, l’ottocento, le scoperte scientifiche la rivoluzione industriale

Raccontare la Storia utilizzando date e avvenimenti come fossero improvvisi, inaspettati e totali stravolgimenti del genere umano è davvero semplicistico, ma se vogliamo per necessità di semplificazione scegliere una data che ha completamento cambiato la Storia del mondo, allora questa volta non abbiamo dubbi nello scrivere 1789. Si affaccia prepotentemente sul palcoscenico del Mondo una nuova classe sociale. Altro che piramidi egizie o prodigi simili, scriverà a ragione C. Marx “ la borghesia sta facendo la sua rivoluzione e cambiando il mondo”. Ci impiegherà molto e ,come sappiamo oggi,  e in continua evoluzione.  Inizialmente appropriandosi dei mezzi di produzione e riducendo la quasi totalità degli uomini in “nuovi schiavi”, strappandoli alla terra e da ogni forma di mercato, che non fosse quello dello scambio denaro-forza lavoro; oggi trasformandoci, tutti, in consumatori. Abbiamo scritto 1789 perché simbolo in realtà di una grande e meravigliosa utopia, che ancora ci affascina: libertà, uguaglianza, fratellanza.
In realtà agli inizi dell’Ottocento ci troviamo di fronte ad una eccezionale “forza delle idee”, accompagnata da un accumulo di ricchezze da parte dei paesi colonialisti mai visto prima, da uno sviluppo altrettanto impressionante delle più importanti scoperte scientifiche della intera storia dell’umanità, dal perfezionamento delle tecnologie relative alle attività agricole e zootecniche, dalla crescita di paesi emergenti come gli Stati Uniti d ‘America, dai commerci europei e poi mondiali che si sviluppano a dismisura, soprattutto intorno alla metà dell’Ottocento, grazie alla ferrovia .
Per quanto riguarda l’alimentazione, basterà immaginare i milioni di tonnellate di prodotti alimentari che si spostano ormai rapidamente per centinaia di chilometri; pensare alle scoperte di Louis Pasteur e di Nicolas Appert, che apriranno la strada dell’inscatolamento industriale di carne, verdure e minestre, oppure pensare alle nuove tecniche di refrigerazione e di congelazione.
Nel 1850 il mattatoio di Londra si trova ad Aberdeen, a 800 km dalla capitale e ogni mattina giungono in città “ montagne di ottime carni macellate il giorno prima” come riportano le cronache dell’epoca.
Inutile rievocare le terribili condizioni di vita del primo proletariato inglese,  pane duro e tè…..
Ma la logica della produzione industriale non può mantenere escluse a lungo le masse, le classi inferiori, dal godimento di almeno parte delle risorse alimentari. Verdure, prodotti in scatola, zucchero, cacao e infine carne vengono offerti a prezzi via via più accessibili. Parlare di Europa è particolarmente difficile; in troppe regioni del continente le situazioni sono “arcaiche”, legate soltanto all’agricoltura ed a un poco di pastorizia; il consumo di prodotti locali è ancora l’unico presente.  L’Italia moderna, la cui data di nascita è, come ben sappiamo, il 1860 ne è un clamoroso esempio. L’Europa è di nuovo divisa in due, non per abitudini, cultura o religione, ma per ricchezza… In ogni caso si possono intravedere verso la fine dell’Ottocento alcune situazioni che risulteranno evidenti nel XX sec:.
-si allenta il vincolo tra alimenti e territorio e si amplia a dismisura l’offerta di massa di ogni genere di prodotto alimentare
-si uniformano, seppure lentamente, i modelli alimentari
-i modelli alimentari diventano urbani, non soltanto perché le grandi città crescono in maniera esponenziale, poiché la società industriale è una società a alto tasso di urbanizzazione o se preferite di concentrazione di persone e di ricchezza, ma anche perché la città propone veri e propri modelli, che seppure in continua evoluzione, valgono per tutti…..   Questa Storia comincia soprattutto nel Nord Europa; l’Italia viaggia con molto ritardo…. La nostra rivoluzione alimentare di massa dovremmo datarla 1950…

La ristorazione moderna  (dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale)

Torniamo al 1789: migliaia di persone, giungono da ogni angolo della Francia e si ritrovano a Parigi, per ragioni politiche ma anche commerciali. E' in gioco il destino del paese e non solo.
Centinaia di cuochi, maggiordomi e altre figure del genere si ritrovano senza più padroni ma anche senza più lavoro. Certo la ristorazione parigina in qualche forma rudimentale già esiste, ovviamente. Piccoli e spartani luoghi di ristoro appunto, dove possono essere servite poche e semplici pietanze.
Da questa situazione nasce quella che oggi consideriamo la ristorazione moderna; vengono aperti molti locali, magari all’interno dei palazzi aristocratici sequestrati. I più bravi cuochi-nuovi imprenditori  di Parigi cominciano a proporre la loro ristorazione, probabilmente rielaborando e adattando la cucina patrizia che proponevano all’aristocrazia. I “nobili” si prenderanno le loro rivincite, come sappiamo, riassumeranno i loro cuochi e la storia gastronomica francese, e, per lungo tempo, mondiale, li celebrerà come vere  e proprie star.  Un nome su tutti Antoine Careme. Chef geniale e probabile spia francese, mentre serviva le corti di mezza Europa. Non sfugga anche in questo la sostanziale differenza; fino alla rivoluzione francese la gastronomia è soprattutto di chi la racconta o la scrive….
Da noi le cose procedono lentamente e in ritardo.  Dall’unità d’Italia e sino ai primi del Novecento il panorama gastronomico italiano rimane sostanzialmente invariato; la monarchia e l’aristocrazia si uniformano, seppure in maniera piuttosto sobria, allo stile francese.
In fondo i Savoia sono assolutamente filo francesi, anzi si considerano di fatto francesi, anche se il loro destino di dinastia marginale e piuttosto rozza li ha confinati in altri luoghi, prima con varie fortune nel Nord Ovest dell’Italia, poi regnanti del Regno di Sardegna e infine reali d’Italia.
Il menu di corte è regolarmente scritto in francese sino agli anni Venti.  In tutta la penisola la cucina popolare rimane fortemente legata al territorio, seppure alcuni piatti comincino a diffondersi e ad acquisire una certa solidità nazionale; la pastasciutta, il riso, la pizza, La tragica, feroce, prima guerra mondiale sarà l’occasione per far incontrare e mettere insieme culture, lingue, dialetti e anche abitudini alimentari. In tutta questa tristezza un movimento culturale di grande forza e di notevole rilevanza, il futurismo, cercò di cambiare persino la gastronomia. La volontà di rinnovare profondamente e rendere moderno e dinamico il nostro Paese e tutto il mondo, coinvolgeva ogni aspetto della vita umana e non solo l’espressione artistica.
Come sappiamo il tentativo fallì completamente, ma ciò non significa molto.  Se leggiamo con attenzione e poi guardiamo alle esperienze degli ultimi vent’anni della cuicna d’avanguardia di molti famosi chef dei nostri giorni, potremmo restare davvero stupiti. Perché Marinetti, Fillia e i loro collaboratori e amici avevano previsto e indicato la strada; la cucina attuale, quella tecnologica, concettuale, quella della destrutturazione del cibo, quella dell’uso dell’azoto liquido, del gas, dei sifoni, della disidratazione e concentrazione è già tutta scritta negli anni Trenta del secolo scorso da questi straordinari visionari.

Il dopoguerra, il boom economico, l’industria alimentare e la nuova organizzazione sociale. I piatti nazionali 

La nostra Storia Nazionale comincia con la Liberazione dal fascismo e un durissimo dopoguerra : in questo senso siamo un Paese giovanissimo. Anche la gastronomia è coinvolta nel tumulto di una società in totale cambiamento. Totale significa che cambia completamente l’economia, la geografia, la cultura, i comportamenti, le idee e quindi anche l’alimentazione e gli stili alimentari degli italiani.
Un fenomeno assolutamente di massa. Pensiamo soltanto ai milioni di uomini e donne che si spostano per motivi di lavoro, alla televisione che fa conoscere l’Italia agli italiani,  allo sviluppo delle grandi industrie alimentari, all'utilizzo di massa degli elettrodomestici, come ad esempio la cucina e il frigorifero, alle donne che cominciano ad emanciparsi, ad inserirsi proficuamente nel mondo del lavoro, intendiamo fuori da casa, ovviamente, e hanno meno tempo per occuparsi di cucinare e di fatto cambiano le abitudini e lo stile alimentare delle famiglie, alla medicina che sostiene un’alimentazione adatta ad ogni età e stato di salute.
E pensiamo alla fame, ricordo ancora recente e lacerante. Probabilmente casa, alimentazione, mobilità e abbigliamento sono i quattro “cantoni”della vita , i quattro obiettivi di ogni singolo italiano e probabilmente il  primo, o è il cibo o è  l’auto……!!!!
La nostra storia finisce qui.

Disponibile all'indirizzo http://www.lacucinaitaliana.it/. Modificati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.

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