Procurarsi il cibo è un bisogno primario. Che dalla preistoria in poi ha segnato la nascita e l’evoluzione della civiltà.
Perché la metà degli abitanti degli Stati Uniti è sovrappeso mentre i giapponesi sono il popolo più magro e longevo? Perché la statura media negli ultimi secoli è aumentata in molti paesi del mondo? Le risposte vanno cercate nei loro piatti. Studiando gli alimenti che sono via via comparsi nella dieta della specie umana negli ultimi 6 milioni di anni, quando il genere Homo si è differenziato dal suo progenitore Australopithecus, si può infatti scoprire come l’alimentazione abbia influenzato la nostra evoluzione, fin dall’epoca preistorica.
I frutti dell’Eden.
I primi uomini comparsi sulla Terra avevano probabilmente una dieta non molto diversa da quella di altre scimmie antropomorfe (gorilla e scimpanzé): frutti che trovavano in abbondanza sugli alberi. Più, forse, carcasse di animali cacciati dai grandi predatori. E occasionalmente qualche piccolo roditore catturato. Poco per volta, però, la dieta dei primi uomini – hanno scoperto i paleoantropologi – divenne più ricca di grassi. Gli individui che si trovavano a vivere vicini al mare devono aver cominciato a mangiare i molluschi che raccoglievano sulle spiagge o nelle acque basse, mentre gli individui che abitavano nell’interno iniziarono a rompere le ossa che trovavano per succhiarne il midollo. Il risultato fu un eccezionale sviluppo del sistema nervoso e un aumento del volume del cervello. Ben presto l’organo arrivò a essere più grande, tra quelli degli altri animali, rispetto alle dimensioni corporee.
Cervelloni.
Questi cambiamenti furono accompagnati da un mutamento climatico nel continente africano, dove quasi certamente nacque la specie umana: le praterie si estesero sempre di più rispetto alle foreste e le risorse alimentari si distribuirono su un’area sempre più vasta. Avere un cervello più grande, a quel punto, costituì un vantaggio: quei primi “cervelloni” sapevano memorizzare meglio dei loro concorrenti dove cercare il cibo. E se spostarsi su due gambe era una marcia in più, a questa si unì presto la capacità di cacciare utilizzando gli utensili (un altro frutto secondario del “boom del cervello” innescato dall’alimentazione).
Le prime comunità di cacciatori-raccoglitori erano necessariamente nomadi perché dovevano spostarsi ogni volta che si esaurivano le risorse del territorio che avevano occupato fino a quel momento. Andarono avanti così per tutto il Paleolitico finché, circa 10mila anni fa, non avvenne un’altra svolta decisiva. Ancora una volta, legata alla fame e all’alimentazione:l’agricoltura.
Affollata.
Alla base di tutto ci fu la prima grande esplosione demografica dell’umanità. «La popolazione della Terra passò da circa un milione di persone di 60mila anni fa a oltre 9 milioni», spiega Tom Standage, autore di Una storia commestibile dell’umanità (Codice). Migrazioni umane mai viste prima spostarono interi gruppi da un continente all’altro. E procurarsi il cibo che la natura offriva spontaneamente non bastò più. Bisognava cominciare a produrlo da sé, il pane quotidiano.
L’ispirazione venne forse dall’osservazione delle latrine o dei mucchi di rifiuti. In quei luoghi (peraltro molto frequentati) qualcuno deve aver notato che le piante nascevano spontaneamente dai semi “trasportati” nell’intestino di chi si cibava di frutti. Ma soprattutto, non si sa dove e non si sa quando, qualcuno osservò che alcune di quelle piantine (quelle che oggi classifichiamo come legumi e cereali) avevano caratteristiche particolari: per esempio spighe più robuste e che trattenevano meglio i semi, impedendo che, una volta raccolte, si perdessero per strada. «Magari i cereali non erano un alimento terribilmente eccitante, però si poteva sempre contare su quel cibo in caso d’emergenza», dice Standage. «Iniziò allora quel processo di selezione per cui, oggi, quasi nessun cibo che mangiamo può più essere definito naturale».
Rivoluzionarie pannocchie.
Le prime piante commestibili coltivate (tecnicamente si dice “domesticate”) furono – in Medio Oriente – il grano, l’orzo e il miglio. A queste seguirono fave, piselli, lenticchie e lino. Il riso, che come pianta spontanea già esisteva da millenni, venne coltivato in Asia per la prima volta oltre 7mila anni fa (non per niente in questo continente i risicoltori vengono a volte detti, approssimando, “agricoltori da cinquanta secoli”) e venne introdotto poco più tardi in Africa. «Di fatto, nel 2000 a.C. la maggioranza dell’umanità aveva ormai adottato l’agricoltura», precisa Standage.
Un caso particolare di selezione fu quello che portò alla coltivazione del mais (granoturco) in America. Secondo gli archeo-botanici derivò probabilmente da un cereale, il teosinte, che cresce ancora oggi spontaneamente in Messico. Alcune piante di questa varietà erano portatrici di una mutazione che indeboliva (fino a farla scomparire) la gluma, cioè il rivestimento dei chicchi. Dal punto di vista dell’evoluzione della pianta era uno svantaggio, perché limitava la possibilità di propagazione dei semi. Per gli uomini, invece, quel “difetto” era un grosso vantaggio (i chicchi erano più facili da “sbucciare”): ecco perché si cominciò a coltivarlo. E quel mais “mutante” aveva un’altra caratteristica: spighe molto più grandi (benché talvolta una sola per ogni stelo).
La domesticazione di un numero crescente di specie coltivabili favorì l’accumulo di una ricchezza rinnovabile (il grano, per esempio) da conservare in magazzini protetti da mura (ovvero città) e che si poteva commerciare, a patto di saper fare i conti (ovvero usare la scrittura).
Risorse nascoste.
Ma i percorsi attraverso i quali alcuni cibi hanno viaggiato nei secoli per arrivare sulle nostre tavole non sono sempre stati così lineari. La storia della diffusione della patata, per esempio, è stata ricostruita solo con difficoltà. Portata dalle Ande in Europa sul finire del XVI secolo, passò prima un periodo di acclimatazione (non si riusciva a farla riprodurre) per poi diffondersi nel Nord Europa. Curioso anche il caso dello zucchero. Conosciuto da secoli come bene di lusso, divenne un genere “di massa” in Europa solo grazie alla rivoluzione industriale, tra il Settecento e l’Ottocento. Enormi quantità ne furono importate dalle Indie Occidentali (l’America) in Europa e, nel giro di pochi decenni, in Inghilterra passò dal 4 al 22 per cento del totale delle calorie consumate (per lo più aggiunto al tè, altro nuovo boom alimentare importato dalla Cina). «Come usava il carbone per alimentare le macchine a vapore, la Gran Bretagna impiegava il cibo d’oltremare per fornire energia ai suoi operai durante i lunghi turni di lavoro», spiega Standage. «E lo zucchero fu presto usato anche per ravvivare una dieta, quella inglese, altrimenti monotona: si prese ad aggiungerlo ai tortini di riso, alla marmellata e ai panini sotto forma di melassa».
Altrettanto affascinante è la storia del girasole, prima coltivato dai nativi americani senza che gli venisse attribuita molta importanza, e poi – dall’Ottocento – diventato una coltura fondamentale per i suoi semi oleosi nell’Est europeo.
Amico cane.
Non solo le piante furono addomesticate: dopo l’agricoltura l’uomo scoprì presto anche l’allevamento. Probabilmente osservò dapprima che i cuccioli degli animali catturati che crescevano nei villaggi, perdevano la loro aggressività. E sicuramente il primo animale che accompagnò l’uomo fu il cane, come testimoniano alcuni resti di circa 12mila anni fa. Dopo il cane, fu la volta della capra, tra 9mila e 10mila anni fa, alla quale seguirono pecore, mucche e maiali da cui ricavare latte, carni e pellami.
Nel caso di bovini e suini si selezionarono anche gli individui più docili, più facili da gestire e (nel caso delle mucche) da usare per il lavoro nei campi. I resti più antichi di bovini addomesticati risalgono al 6500 a.C. e sono stati trovati in Grecia. Il bufalo indiano fu addomesticato alcuni millenni più tardi (intorno al 2500 a.C.) ma forse già prima veniva usato come animale da tiro e come fonte di carne e latte.
Asino e cavallo hanno invece una storia a parte. Il primo era noto come animale domestico già nell’Egitto del 3000 a.C. ma non è mai stato davvero impiegato come fonte di carne. Il cavallo, invece, forniva sia latte (il latte di puledra fermentato è ancora oggi molto popolare in Asia) sia carne (si stima che ancora oggi in tutto il mondo si mangi mezzo milione di tonnellate di carne di cavallo). E storie simili hanno animali per noi più esotici, come la renna e, all’estremo opposto, il cammello e il dromedario, per non parlare di lama e alpaca, tutti addomesticati tra 5mila e 6mila anni fa. In Giappone, circondato da uno dei mari più ricchi del pianeta, fu invece il pesce (crudo) a finire nei piatti nazionali. E a garantire longevità ai suoi abitanti.
Grassi e magri.
Che siano di origine vegetale o animale, infatti, gli alimenti selezionati dall’uomo per sfamarsi non sono stati senza conseguenze anche in tempi ben più recenti di quelli preistorici. Quattro malattie da malnutrizione hanno assillato l’Europa per secoli: pellagra, scorbuto, rachitismo e anemia gravidica, tutte causate dalla carenza di una specifica vitamina (nell’ordine: B, C, D e acido folico). E tutte causate da una dieta particolarmente limitata, priva di componenti essenziali: se la pellagra colpì i contadini italiani nel XVIII-XIX secolo, che consumavano quasi esclusivamente polenta di mais, lo scorbuto fu tipico dei marinai che affrontavano lunghi viaggi per mare, e fu debellato solo quando si cominciarono a imbarcare sulle navi anche molti agrumi, ricchi di vitamina C.
E se oggi il cibo risponde ancora al bisogno di sfamarsi in molti Paesi poveri, nel mondo industrializzato si lotta, forse per la prima volta, con il problema opposto: la sovralimentazione e il sovrappeso. Responsabili sono la facile disponibilità di cibi ricchi di grassi e zuccheri e gli stili di vita. Anche questa è una conseguenza dell’evoluzione: la specie umana ha ormai sviluppato la capacità di consumare alimenti altamente calorici, minimizzando, allo stesso tempo, la quantità di energia che deve spendere per procurarseli. Per capire se questo sia stato o no un vantaggio evolutivo serviranno forse altre migliaia di anni.
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Lo spettro della carestia
La storia dell’alimentazione è stata, in alcuni momenti, segnata dalle carestie, a volte provocate dall’uomo (è il caso, per esempio, dei lunghi assedi che fiaccavano le popolazioni delle città prendendole per fame) e a volte causate da eventi naturali catastrofici. Due esempi che hanno avuto entrambe le cause, scelti tra i periodi più recenti, sono il terribile inverno del 1944-45 nei Paesi Bassi e la carestia di un secolo prima in Irlanda. Inverni e funghi. Nel primo caso all’embargo imposto dalle truppe di occupazione tedesche si sommarono gli effetti di rigide condizioni meteorologiche. Il risultato di quella stagione, nota come hongerwinter (“l’inverno della fame”), fu di circa 30mila vittime. La carestia irlandese dell’800, invece, ebbe tra le cause principali la diffusione di un fungo, la peronospora, che attaccò le coltivazioni del principale alimento, le patate, distruggendole. Il risultato fu un’epocale emigrazione verso Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna e Galles.
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A proposito di pane e latte
li individui appartenenti alla specie umana ebbero, fin dall’inizio, un importante vantaggio sugli altri primati. Si tratta dell’amilasi, un enzima presente nella saliva che permette di predigerire l’amido. Questo è stato un importante vantaggio evolutivo che ha permesso ai nostri antenati di includere nella loro dieta i carboidrati, invece che limitarsi ai frutti ancora oggi dieta-base delle scimmie.
Altra caratteristica della nostra specie è stata la capacità, evolutasi nelle comunità di allevatori dell’Europa Centrale 7.500 anni fa, di digerire il lattosio, cioè lo zucchero del latte.
Bevete più latte! I neonati producono in quantità l’enzima che ha questa funzione, la lattasi, che però si riduce intorno ai 4 anni. Non per niente l’intolleranza al latte (dovuta alla carenza di lattasi) è molto rara là dove è stato storicamente più radicato l’allevamento di bovini (e il consumo di latte), come nel Nord Europa.
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Come le mucche conquistarono il West
Pascoli sconfinati. Questo vedevano davanti a sé gli allevatori americani di metà ’800. E se non fosse stato per la fame di carne degli americani, forse il West non sarebbe stato conquistato così in fretta. Adatte. La rivoluzione iniziò già nel 1830, quando allevatori spagnoli in fuga dal Messico (in guerra con gli Stati Uniti) portarono le loro vacche dalle lunghe corna (longhorns) in Texas. Erano mucche speciali, capaci di sopravvivere anche nell’arido Sud-ovest.
Nel 1865, a guerra civile conclusa, la domanda di carne tornò a crescere. In treno. Due novità favorirono quella svolta. La prima fu la ferrovia: in mancanza di carri frigoriferi, permetteva di spostare gli animali vivi per migliaia di chilometri, condotti dai cowboy fino agli snodi ferroviari. «Sui pascoli, un capo di bestiame del Texas valeva 3-4 dollari», spiega Maldwyn Jones, storico degli Stati Uniti. «Ma riuscendo a far arrivare le mandrie ai mercati del Nord se ne potevano ricavare dieci volte tanto ». Destinazione finale delle vacche era Chicago, la capitale dei macelli dove erano nate le prime catene di lavorazione alimentare industriale. Corsa all’erba. Quando le mandrie divennero più numerose, ci si rivolse alle praterie dell’Ovest, sottratte ai nativi. E qui debuttò la seconda novità: il filo spinato, brevettato nel 1874, che trasformò quelle vaste praterie in ranch.
Di Daniele Venturoli, estratti "Focus Storia Collection", Estate 2016, Mondatori, Milano, pp.11-15. Compilati e adattati per essere postato per Leopoldo Costa.
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