3.20.2017

FRANCESCO D'ASSISI, LA STORIA CONTROVERSA DELLA BIOGRAFIA UFFICIALE


Già a pochi anni dalla sua scomparsa, il messaggio e l’immagine di Francesco sono oggetto di interpretazioni diverse finché Bonaventura da Bagnoregio non ne impone una univoca con la sua Legenda maior.

Santificato ad appena due anni dalla morte, Francesco fu da subito oggetto di interpretazioni contrastanti, finché Bonaventura da Bagnoregio, insigne teologo presso l’Università parigina e autore di una biografia di Francesco d’Assisi che passerà alla storia come la Legenda maior, non ne impose una univoca. È il 1266, e a Parigi è in corso il Capitolo generale dell’Ordine francescano. Sotto l’energica guida di Bonaventura da Bagnoregio viene diramato un ordine di portata inusitata: tutti i precedenti materiali biografici sul santo fondatore, siano essi biografie compiute o semplici appunti informali, devono essere rintracciati convento per convento e distrutti. In gioco c’è la memoria storica di un uomo straordinario con il quale, a quarant’anni dalla morte, l’ordine non ha mai davvero finito di misurarsi: Francesco, il giullare di Dio.

Nato nei primissimi anni Ottanta del XII secolo in seno a un’agiata famiglia mercantile di Assisi, Francesco aveva compiuto la propria conversione intorno ai venticinque anni. La sua proposta di vita rappresentava qualcosa di radicalmente nuovo: laico, propugnava una povertà assoluta, una predicazione gioiosa del Vangelo, un itinerare fra gli emarginati del secolo. Il successo della sua parola e del suo esempio era stato folgorante, e aveva portato a raccogliersi intorno a lui una comunità di fratelli, di frati, che nel volgere di pochissimi anni era arrivata a contare migliaia di membri. Diramatosi rapidamente in tutta Europa ancora vivo Francesco l’ordine aveva tuttavia mostrato di essere percorso al suo interno da non poche fibrillazioni che alla morte del fondatore – già dimissionario dalla guida dei frati nel 1220, stroncato dalla malattia sei anni più tardi – alimentano una lunga, sorda guerra fra i diversi modi di interpretare la vicenda francescana e la “Regola” che questa stessa vicenda informava. Chi era stato, davvero, Francesco?

Che valenza attribuire, alla luce del tempo trascorso e della crescita dell’ordine, ai suoi ferrei precetti di vita? Come conciliare il rigore dei primi frati – quegli stessi primi frati che, orbitanti intorno alla chiesa di Santa Maria della Porziuncola, non avevano mai smesso di vivere la condizione di minorità sancita da Francesco – con le prospettive di crescita culturale e di serenità materiale coltivate da intere nuove schiere di francescani radicate nel Nord Italia, e poi più ancora nel Nord Europa?

È nell’ambito del processo di canonizzazione che, per la prima volta, mettere a fuoco Francesco diviene un’esigenza ineludibile. A promuovere la sua santità – a promuoverla fin troppo tempestivamente, secondo alcuni osservatori – è papa Gregorio IX: è questi, istruito il processo di canonizzazione già all’indomani della morte del frate, a valutare come urgente un’agiografia che stemperi, sintetizzandole, le divergenze che vanno montando all’interno dell’ordine. Gregorio IX assegna il compito di raccontare Francesco, di raccontarlo in tempo utile alla sua proclamazione a santo, a Tommaso da Celano: un francescano accolto nell’ordine nel 1215 per essere poi trapiantato in Germania, avulso dalle polemiche fra i diversi orientamenti dei frati.

Quale Francesco?

Tommaso lavora febbrilmente alla Vita beati Francisci, sia raccogliendo alcune dirette testimonianze dei più stretti compagni di Francesco, sia attingendo agli atti del processo di canonizzazione; al contempo modella la propria opera sulla falsariga delle agiografie dei grandi santi, avendo in mente il registro con il quale in passato era stata tratteggiata la vicenda di Agostino, di Martino di Tours ecc.

La Vita è ultimata qualche mese più tardi rispetto a quel 16 luglio 1228 in cui viene celebrata la canonizzazione di Francesco, oppure – più probabilmente – a una prima parte del testo Tommaso aggiunge solo in un secondo momento una seconda e una terza parte, brevissime: a ogni modo la sua opera si rivela nel complesso una delusione. Stilisticamente appesantito dai modelli letterari di riferimento, il Francesco di Tommaso è narrativamente poco efficace, quando non problematico: non produce in vita quella pletora di miracoli “classici”, inerenti magari l’ambito delle guarigioni, che aiuterebbe Gregorio IX a tacitare quanti guardano con scetticismo a una canonizzazione fulminea; non prescinde – non del tutto, almeno – da una certa amarezza indotta dalle ripetute richieste di mitigare la Regola avanzate da una sempre più nutrita frangia di frati, quella stessa frangia che è parte in causa nelle attuali fibrillazioni dell’ordine; soprattutto, irrompe sulla scena già pienamente adulto, come privo di un retroterra, vivendo un’esperienza sì intensa e tuttavia mancante dell’autenticità dei primi, felici anni della comunità francescana.

Eppure un altro Francesco è possibile: lo mettono nero su bianco alcuni dei primi compagni del santo – Leone, Rufino, Angelo Tancredi – quando l’11 agosto 1246 indirizzano al ministro generale dell’ordine, Crescenzio da Iesi, la cosiddetta Lettera di Greccio. La lettera accompagna dei materiali biografici sul santo che, a detta degli autori, risulteranno utili a recuperare il Francesco più vero, quello che alcuni di loro hanno conosciuto fin da ragazzo prima, e con il quale hanno vissuto fianco a fianco poi: il giovane brillante e carismatico, affascinato dalla letteratura cortese, che sogna di diventare cavaliere; il rampollo di buona famiglia che vive una lunga, sofferta crisi spirituale, che risolve in un messaggio nuovo trascinando con sé un’intera generazione; il giullare di Dio che ammalia l’uditorio con la propria predicazione gioiosa, e che al contempo non transige – né transigerà mai – sulla professione di una povertà assoluta, sulla necessità del lavoro manuale, sull’inopportunità dello studio giacché è anche attraverso di esso che si rischia di coltivare quell’orgoglio che è nemico della tanto agognata minorità.

«Quelle poche cose che qui riportiamo» – si legge nella lettera – «le potete fare inserire, se vi sembrerà opportuno, nelle leggende già scritte, perché riteniamo che quei venerabili uomini che scrissero tali leggende, se avessero conosciuto prima queste cose, certamente non le avrebbero omesse, ma le avrebbero semmai impreziosite con il loro eloquio e trasmesse ai posteri»: è opportuno notare come «quelle poche cose» – espresse nei materiali al seguito della lettera: la Leggenda dei tre compagni, senz’altro, così come probabilmente un secondo scritto confluito successivamente nella Compilazione di Assisi – non rispondano soltanto all’autonoma volontà dei primi frati di preservare l’autentica memoria storica di Francesco, ma anche alla necessità, esplicitamente avvertita dai vertici dell’ordine, di commissionare una seconda biografia del fondatore che possa riuscire là dove la prima ha fallito: nella sintesi conciliante – e una volta di più documentata – fra le diverse anime francescane.

L’evoluzione dell’ordine

È nuovamente Tommaso da Celano a essere incaricato del compito. Abbandonate le velleità letterarie della Vita beati Francisci, alle prese con la compilazione del Memoriale Tommaso non si fa illusioni sulla riuscita dei suoi sforzi: «Chi, fra così tante parole e fatti, potrebbe soppesare ogni cosa con una bilancia di tale precisione che tutti si trovino d’accordo su ogni singolo punto?». Non è un caso che l’agiografo si trovi a rimaneggiare la propria opera ancora nei primi anni Cinquanta del Duecento: il succedersi delle redazioni del Memoriale lascia intuire quanto sia arduo tenere insieme i materiali raccolti, le diverse anime francescane e gli indirizzi politici via via sviluppati dall’ordine.

È da questo equilibrio precario che muovono le differenze fra le due biografie di Tommaso, il quale si vedrà infine costretto a indicare il più grande miracolo francescano non già nella figura del fondatore, ma nel successo storico dell’ordine tutto, diffusosi ovunque e forte di non poche personalità eccezionali quali per esempio Sant’Antonio di Padova. Dalla morte di Francesco sono passati quasi trent’anni: le diverdivergenze all’interno dell’ordine si sono acuite, perché ad acuirsi è stata la distanza che separa quanti continuano a propugnare l’osservanza letterale dei precetti del santo, da una parte, e dall’altra quanti al contrario propendono per adattare questa stessa osservanza alle circostanze nel frattempo evolutesi.

Non c’è, nei primi, alcuna ingenuità d’animo o semplicità intellettuale: c’è invece un profondo legame sentimentale con la memoria di Francesco, che va di pari passo con la consapevole, argomentata scelta di non derogare a quei principi che hanno rappresentato la scintilla originaria dell’ordine. Al contempo, nei secondi, non c’è – non ancora, almeno – la volontà di distorcere il passato francescano, quanto piuttosto l’urgenza di attualizzarne lo spirito prendendo atto di ciò che nel frattempo è diventato l’ordine. Come potenziare la predicazione senza un’adeguata preparazione teologica? E come intraprendere un’adeguata preparazione teologica senza poter possedere alcunché, siano anche i libri per lo studio? E come potere applicarsi nello studio – vero e proprio lavoro, ancorché intellettuale – senza poter prescindere dal sostentamento conseguito per mezzo del lavoro manuale? Ecco allora venire nei fatti relativizzata quella precarietà che, in evidente controtendenza con il sentire del suo tempo, aveva rappresentato per Francesco il massimo grado della libertà; ecco allora lo stimolo delle nuove generazioni di frati ad acculturarsi ad alti livelli fino a prendere parte ai meccanismi decisionali del mondo: fino a legarsi a doppio filo, magari, con quella Chiesa di Roma che Francesco aveva sì sempre rispettato, ma alle cui maglie aveva sempre cercato di sottrarsi. Il caso dell’Università di Parigi, che i frati frequentano prima in veste di studenti e poi in veste di docenti di teologia, pur nella sua complessità è in questo senso illuminante.

La Legenda maior di Bonaventura

La battaglia raggiunge uno dei suoi primi e massimi apici negli anni del generalato di Bonaventura da Bagnoregio. Nato intorno al 1217, questi aveva conseguito alla Sorbona il diploma di magister in artibus: vestito il saio, aveva proseguito gli studi fino ad assurgere fra i protagonisti dell’insegnamento teologico parigino.

Quando viene eletto al vertice dell’ordine, nel 1257, i francescani stanno vivendo un frangente quanto mai delicato: le recenti, ardite speculazioni teologiche di alcuni frati avevano esposto l’ordine alla critica serrata dei suoi detrattori, particolarmente animati proprio là dove l’ordine aveva messo radici, ovvero l’Università di Parigi. Bersagliati, i francescani avevano avviato un’epurazione interna al fine di fugare ogni dubbio sulla loro piena ortodossia: è allora nell’ottica di una rinnovata compattezza che Bonaventura propende per affrontare una volta per tutte il nodo dell’identità francescana, conciliando energicamente il passato dell’ordine con il suo presente.

Il primo passo del generale è quello di riordinare la letteratura legislativa francescana: nel corso del capitolo di Narbona del 1260 presenta quelle Costituzioni generali che rivedono le Costituzioni in essere, eliminando con ciò le divergenze interpretative in merito alla Regola. È probabilmente ancora a Narbona, inoltre, che Bonaventura presenta il progetto di una nuova biografia di Francesco che possa finalmente dotare l’ordine di una memoria condivisa: se ne fa carico personalmente, avviando la redazione di quella Legenda maior che si può ipotizzare verrà approvata già tre anni più tardi durante il capitolo di Pisa.

Destinato a imporsi nell’immaginario collettivo, il Francesco di Bonaventura è lontano da quello di Tommaso da Celano, lontanissimo da quello dei primi compagni del santo: non più un arduo ma pur sempre praticabile modello di vita religiosa, ma un inviato di Dio che può e che deve essere venerato, certo, ma non imitato giacché inimitabile. Simplex et idiota – come lo stesso Francesco si era definito, benché in un’accezione provocatoria che Bonaventura finge di non cogliere – il santo della Legenda maior è un mistico inarrivabile: si immerge in acqua ghiacciata, dorme sulla nuda roccia, non prova disgusto per i segni della lebbra, si flagella, mangia solo pane secco, vive in comunione profonda con il regno animale.

La cornice in cui si muove è priva di conflitto; la sua decisionalità, mai minata dal dubbio, è indefessamente subordinata alla visione o al segno profetico, non fosse altro perché – ingenuo e sprovveduto – è solo per ispirazione divina che può afferrare il mondo e la Scrittura. Segnato dalle stimmate – un miracolo di portata straordinaria che, pure già narrato nei precedenti materiali biografici, Bonaventura porta al massimo grado – il Francesco della Legenda maior è a conti fatti un inequivocabile manifesto politico sotto le mentite spoglie di una figura escatologica: nell’anticipare inarrivabilmente quella vita in comune che si realizzerà solo negli ultimi tempi, lascia ai frati il compito di prepararsi a essi in modi nuovi che prescindono dalla sua ipotetica approvazione. Non certo, va da sé, da quella del ministro generale dell’ordine.

La penombra della clandestinità

L’epurazione promossa da Bonaventura si risolve in un successo di ampie proporzioni: eliminati dalla scena i materiali che potrebbero disturbarne la prospettiva, è la sua Legenda maior a imporsi storicamente quale biografia di riferimento di san Francesco. E tuttavia, pure nella penombra della clandestinità, non tutto del Francesco altro va davvero perduto, giacché si può dedurre come frate Leone disobbedisca al comando del suo generale e, prima di imboccare definitivamente la via del romitaggio, riesca a mettere in salvo i materiali biografici da lui raccolti nel tempo: riportati alla Porziuncola all’indomani della morte di Bonaventura nel 1274, tali materiali devono essersi prestati a essere sistemati, copiati e tramandati nel tempo.

Sarà sullo scorcio dell’Ottocento che il pastore calvinista Paul Sabatier, da lungo tempo sulle tracce di fonti alternative alla Legenda maior, rinverrà fra i codici della Biblioteca Mazarine di Parigi lo Specchio dello stato di perfezione dei frati minori, opera di un anonimo compilatore che, attivo alla Porziuncola intorno al 1318, aveva avuto accesso ai materiali leonini. Sarà con tale, felice scoperta che prenderà il via un’operazione di recupero dell’autentica memoria storica di Francesco: un’operazione di lungo periodo, alimentata nel tempo da nuovi rinvenimenti, di fatto ancora in corso.

Di Jacopo Mordenti, estratto "Storica National Geographic Italia", aprile 2017, anno.VII n.98, pp.54-63.  Adattato e illustrato per essere pubblicato da Leopoldo Costa.

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