3.24.2017

MUSA I, IL RE DELL'ORO


Musa I, sovrano del Mali nel XIV secolo, è considerato uno degli uomini più ricchi della Storia. Un vero nababbo grazie alle inesauribili miniere d’oro del suo Paese.

Il più ricco di tutti i tempi? Nessun “Paperone” cinese o americano. Probabilmente il più alto gradino del podio tocca a un mansa, termine con cui si indicavano gli antichi re del Mali, e precisamente a Musa I (1280-1337), sovrano dell’impero africano dal 1312 alla morte.

Secondo i calcoli fatti alcuni anni fa dalla rivista Forbes, il suo patrimonio, rapportato ai giorni nostri, raggiungeva i 400 miliardi di dollari! Una cifra che eguaglia le ricchezze della famiglia Rothschild (400 miliardi), supera quelle del ty coon americano John Rockefeller (340 miliardi) e fa sembrare Bill Gates, con i suoi 90 miliardi di dollari, quasi un “poveraccio”.

Al di là delle classifiche, la fortuna di mansa Musa fu quella di governare su un territorio ricchissimo di risorse naturali, posto sul crocevia tra l’Africa Mediterranea e quella Subsahariana.

Snodo commerciale. 

Nel periodo in cui l’Europa era nel pieno del Medioevo (XIII-XV secolo), l’Impero del Mali si estendeva su un territorio immenso nell’Africa Occidentale, lungo il corso dei fiumi Senegal e Niger. Il sovrano di quel regno, grazie al suo potente esercito controllava i traffici commerciali tra nord e sud e imponeva dazi su tutte le merci.

Nei mercati affluivano enormi quantità di avorio, rame, pellicce di animali della savana, ma era l’oro, proveniente dagli immensi giacimenti lungo il fiume Senegal, a fare di Musa il re dei re, il più potente e prestigioso sovrano di tutti i tempi.

Un sovrano quasi divino per i suoi sudditi, che amava ostentare tutto lo sfarzo della sua corte. «Quando c’era udienza, nessuno poteva parlare direttamente al re, ma doveva rivolgersi a un portavoce che fungeva da intermediario», racconta Roberto Bosi nel libro 'I Grandi Regni Dell’Africa' nera (Bompiani), «generalmente il re sedeva su un trono di ebano affiancato da due zanne di elefante, coperto da un drappo di seta e sul quale erano gettati alcuni cuscini. Il re impugnava l’arco e teneva lafaretra a tracolla; indossava un berretto d’oro trattenuto da una fascia dello stesso metallo».

A completamento di questo quadro di opulenza, secondo Ibn Battuta, viaggiatore arabo del XIV secolo, i sovrani del Mali “impugnavano il giavellotto d’oro e indossavano vesti di seta, così come di seta era il grande parasole, sormontato da un uccello d’oro, che li proteggeva dal sole”.

All’apice della sua potenza re Musa arrivò a controllare ben 400 città e il suo regno era prospero e in pace.

Shopping compulsivo. 

Nel 1324, da buon musulmano, Musa decise di ottemperare a uno dei precetti fondamentali della religione islamica: il viaggio alla Mecca. Ma lo fece a modo suo. Lo storico arabo Ibn Kaldun, nella sua 'Storia Universale', racconta che il sovrano maliano fece un pellegrinaggio sui generis: approfittò infatti dei 4.500 chilometri del tragitto e delle tante città da attraversare per mostrare la sua ricchezza e prodigalità. Si mise in marcia con decine di migliaia di persone tra dignitari del regno, cantori, poeti, uomini di scienza e poi schiavi, ancelleal seguito della regina e naturalmente una schiera di guardie e guerrieri.

Musa viaggiava a cavallo accompagnato dalla “sua guardia personale formata da dodicimila schiavi neri vestiti di tuniche di broccato e seta dello Yemen”, racconta Ibn Kaldun, “e da ottanta cammelli ciascuno dei quali portava, oltre agli abiti reali, ottanta carichi di polvere d’oro del peso ciascuno di tre quintali”. A completare la parata, centinaia di animali tra cui cavalli, cammelli, bovini e capre caricati con masserizie e viveri; e soprattutto 500 portatori, a ciascuno dei quali era affidato un lingotto d’oro di circa tre chili.

E in più altri oggetti preziosi. Il sovrano infatti teneva molto a dimostrare a tutti la sua magnanimità e a ogni centro abitato che incontrava sul suo cammino (durato un anno) verso la Mecca faceva dono di grandi quantità di oro e acquistava “souvenir” di ogni genere. Per celebrare poi il venerdì musulmano, decise di sponsorizzare, con i suoi soldi, la costruzione di una moschea nel luogo in cui passava in quel giorno della settimana.

Effetti inaspettati. 

Fu una vera pioggia di polvere d’oro, anzi un vero e proprio acquazzone. Soprattutto al Cairo, dove mansa Musa fece di tutto per impressionare il sultano, il mamelucco An-Nasir Muhammad. Gli effetti sull’economia del luogo e sul portafoglio del sovrano stesso non mancarono. «Il viaggio e le spese compiute da mansa Musa al Cairo», racconta Bosi, «portarono a una svalutazione dell’oro in Egitto calcolata attorno al 12 per cento, ma anche alla sostanziale riduzione del tesoro imperiale, tanto che mansa Musa dovette chiedere un prestito a un ricchissimo mercante arabo di Alessandria per continuare a essere all’altezza del suo rango, promettendo di restituirlo al suo ritorno nel Mali». Le conseguenze di questa svalutazione si fecero sentire a lungo in Egitto: l’oro recuperò il suo antico valore solo una decina di anni dopo quell’episodio.

Mani bucate. 

Il re del Mali aveva comunque ottenuto il suo scopo: in tutta l’Africa del Nord e sulle vie verso la Mecca, cantori e poeti celebravano la sua potenza e la sua ricchezza. Echi del viaggio giunsero anche in Europa, tanto che una mappa dell’Atlante catalano del 1375 indica anche il Mali e raffigura il suo sovrano più famoso in tutta la sua magnificenza con una pepita d’oro nella mano destra, uno scettro dorato nella sinistra e una corona d’oro in testa. La sua leggendaria munificenza fece anche accorrere nel suo regno studiosi e letterati dall’Egitto, dall’Andalusia e dall’Arabia, ai quali diede l’incarico di creare scuole per diffondere l’islam.

Inoltre volle fare di Timbuctù la perla del suo regno, arricchendola di palazzi e moschee. Si servì dell’architetto arabo-andaluso al-Sahilin, che costruì il Palazzo reale (oggi scomparso) e la Grande Moschea, o moschea Djinguereber, dal 1988 Patrimonio dell’umanità. Le cronache raccontano che l’architetto ricevette, per il suo lavoro, una ricompensa di 200 chilogrammi d’oro. Insomma mansa Musa non riusciva proprio a non spendere.

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Gli Eldorado dell’Africa

Prima della scoperta dell’America, la maggior parte dell’oro proveniva dall’Africa. I faraoni egizi lo prelevavano dalle miniere della Nubia (la regione a cavallo tra Egitto e Sudan). Nell’Africa Meridionale fiorirono, tra il X e il XVI secolo, le civiltà del Gran Zimbabwe e dell’Impero di Monomotapa (che significa “signore delle miniere”, area che si estende tra l’odierno Zimbabwe e il Mozambico) che fornivano avorio e oro a gran parte del continente.

Costa dorata. 

Ricco di preziosi era anche il territorio dell’attuale Ghana presso il Golfo di Guinea, chiamato dai portoghesi “Costa d’oro”. E le miniere che fecero ricco l’Impero del Mali garantirono, tra il V e il XII secolo, la prosperità di un altro grande regno, quello del Ghana (non corrispondente al Ghana odierno, ma a una zona tra la Mauritania e il Mali). Gli arabi, che la chiamavano “terra dell’oro”, raccontavano di ricchezze favolose: pare che il sovrano tenesse per sé solo le pepite e lasciasse al popolo la polvere d’oro, considerata uno scarto.

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Trattative silenziose

Per molto tempo la polvere d’oro venne scambiata, attraverso un sistema detto “commercio muto”, dai mercanti del Ghana e del Mali con la merce (sale, datteri e fichi, gioielli in filigrana d’ottone, stoffe) dei mercanti provenienti dal Nord del Sahara. Questi ultimi annunciavano il loro arrivo con trombe e gong, deponevano in un luogo stabilito la merce da scambiare e poi si allontanavano.

Viavai. 

Sul luogo sopraggiungevano allora i mercanti del Ghana e del Mali che lasciavano, accanto a ciò che serviva loro, mucchietti di polvere d’oro quale pagamento. Se il prezzo che si intendeva pagare in oro non andava bene ai mercanti l’operazione si ripeteva. L’andirivieni durava fino a quando non si raggiungeva la reciproca soddisfazione e lo scambio poteva avere luogo.

Di Roberto Roveda, estratti "Focus Storia", aprile 2017, n.126. Mondatori, Milano, pp.40-43. Adattato e illustrato per essere pubblicato da Leopoldo Costa.

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